DOI: 10.12862/Lab18MZR Roberto Mazzola Il futuro degli studi umanistici al tempo dei Big Data * Laboratorio dell’ISPF, XV, 2018 11 Poiché le pagine che seguono sono idealmente indirizzate soprattutto ai giova- ni studiosi, per onestà intellettuale non posso non ammettere il pre-giudizio che muove la mia riflessione. Credo che la nuova ondata di tecnologie convergenti mediate dal connubio di Big Data e Intelligenza Artificiale non solo confligga tout court con i metodi propri delle discipline umanistiche, bensì aspiri a ricondurre la stessa pluralità delle pratiche di Digital Humanities entro l’alveo del paradigma computazionale dominante, funzionale al sogno utopistico di controllo tecno-scientifico di ogni aspetto dell’agire individuale e collettivo. In particolare, il dilagare dell’acritica accettazione sociale della presunta aset- ticità euristica dei dati, che in realtà non sono neutri perché estratti da modelli predefiniti, rischia di condannare all’irrilevanza il pensiero critico e speculativo. Inoltre premetto che la prima parola chiave presente nel titolo del mio in- tervento volutamente esclude le scienze sociali che da sempre fanno ampio ri- corso a metodi matematico-statistici. Anche la seconda parola chiave è da in- tendersi nella sua accezione più ampia. Da un lato, dunque, come recita Wikipedia, «le discipline umanistiche sono discipline accademiche che studiano l’uomo e la condizione umana utilizzando principalmente strumenti analitici, critici oppure speculativi a differenza del- l’empirismo proprio della scienza», dall’altro, il termine Big Data «designa quel- le cose che si possono fare solo su larga scala, per estrapolare nuove indicazioni o creare nuove forme di valore, con modalità che vengono a modificare i mer- cati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e governi e altro ancora»1. Quanto al futuro non soltanto degli studi umanistici ma delle stesse Digital Humanities, poiché non riesco a immaginarlo se non in continuità con il passato e il presente, mi chiedo se nell’età della tecnoscienza valga ancora la pluriseco- lare ammirazione degli umanisti per i benefici del progresso tecnologico. Il recente esperimento condotto su due papiri di Ercolano, custoditi alla Bi- blioteca Nazionale di Napoli, «letti» senza danneggiare i rotoli carbonizzati gra- zie ad un mix di tecnologie ingegneristiche ed informatiche induce all’otti- mismo, se si considerano le prospettive aperte per la papirologia e per gli stu- diosi di filosofia epicurea2. Altri esempi si potrebbero portare di come la me- diazione tecnologica offra molteplici possibilità di rivitalizzare le scienze uma- ne, chiamate a raccogliere la sfida di ridefinire il proprio ruolo nell’età della globalizzazione della cultura diffusa dalla rete. Del resto fin dai tempi di Gu- tenberg gli umanisti si sono adattati con profitto alle nuove tecnologie, tanto che per noi è difficile immaginare gli ultimi cinque secoli di cultura umanistica * Relazione presentata al convegno «L’Umanista nella Rete. Teorie e pratiche delle Digital Humanities», Urbino, 3-4 maggio 2017. 1 V. Mayer-Schönberger - K. Cuchier, Big Data. Una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere e già minaccia la nostra libertà, Milano, Garzanti, 2013, p. 16. 2 V. Mocella - E. Brun - C. Ferrero -D. Delattre, Revealing Letters in Rolled Herculaneum Papyri by X-ray Phase-contrast Imaging, in «PNAS» 113, 14, 2016, pp. 3751-3754; published ahead of print March 21, 2016 . https://doi.org/10.1073/pnas.1519958113 Il futuro degli studi umanistici 3 senza l’invenzione della stampa che, per inciso, è un esempio riuscito di «di- struzione creatrice»; se da un lato, infatti, scompaiono calligrafi e copisti, dall’altro emergono nuove figure professionali legate al nascente mondo del- l’editoria. Ovviamente, allora come ora le novità spaventavano i conservatori e al suo apparire, come era avvenuto per l’invenzione della scrittura criticata nel Fedro platonico, anche il nuovo ritrovato dell’ingegno umano destò le preoccupazioni degli eruditi chiamati a gestire l’enorme mole di nuove informazioni, e attirò gli strali di quanti consideravano i libri riprodotti in serie in modo veloce uno strumento diabolico per la diffusione di idee eretiche e sovversive. Anche ai giorni nostri una certa narrativa elitaria del declino della cultura umanistica idealizza il passato prestigio, dimenticando che i pretesi valori uni- versali dell’umanesimo moderno sono rimasti sepolti nelle trincee della Grande Guerra e che la complementarietà di sapere umanistico e scientifico, di Wissenschaft e Bildung, ispirata al modello humboltiano di istruzione superiore, data per scontata nella formazione intellettuale di artisti, scienziati, letterati e in genere della borghesia colta fino alla metà del XX secolo, è definitivamente tramontata. Questa breve digressione vuole sgombrare il campo dalla sterile riproposi- zione del dibattito sulle «due culture», umanistica e scientifica, sviluppatosi tra le due sponde dell’Atlantico tra il tardo Ottocento e i primi decenni del Nove- cento e riproposto da Charles P. Snow sul finire degli anni Cinquanta. Reputo questo approccio del tutto inadeguato ad affrontare la complessa collocazione delle discipline umanistiche nell’era digitale, che ha ridefinito la relazione tra umanesimo e scienza, dal momento che tutti noi ormai usiamo risorse informa- tiche in ogni fase delle nostre ricerche, senza considerare l’aumento costante dei centri e dei laboratori di umanistica digitale sparsi per il mondo, che ormai si contano a centinaia. Il rapporto tra umanisti e informatica è di vecchia data e, com’è noto, la fi- gura mitica di questo incontro è il padre gesuita Roberto Busa (1913-2011), che sul finire degli anni ’40 del secolo scorso riuscì a ottenere il sostegno dell’IBM per avviare il suo progetto lessicografico, finalizzato all’analisi rigorosa della complessità teologico-filosofica dell’Opera Omnia di Tommaso d’Aquino. I tradizionali metodi di ricerca testuale trovarono negli enormi mainframe, ge- stiti da ingegneri in giacca e cravatta e sorvegliati da tecnici in camice bianco, un potente alleato nel fare da apripista all’informatica umanistica e al successo della nuova disciplina: la linguistica computazionale, di cui l’Index Thomisticus resta ancora oggi un mirabile esempio. Vale la pena sottolineare che senza l’IBM e un costante flusso di finanzia- menti difficilmente l’Index avrebbe superato indenne i problemi di obsolescen- za tecnologica che hanno scandito il percorso del progetto: partito con le sche- de perforate, passato ai nastri magnetici e poi ai CD-ROM fino al Web, dove l’Index è approdato nel 2005. Va anche aggiunto che una volta entrato nell’orbita IBM, pur volendo, Roberto Busa non avrebbe avuto le risorse eco- nomiche per continuare il suo lavoro con un’altra azienda. Del resto l’IBM Roberto Mazzola 4 aveva fatto un investimento ad alto rischio, ma pur sempre un investimento. La dipendenza dell’opera di Roberto Busa dai centri di potere tecnologico e politi- co non è rimasto un caso isolato e nelle mutate condizioni resta un problema non trascurabile per gli umanisti digitali. Comunque sia, a quasi settant’anni di distanza, quel primo storico incontro è ancora oggi un caso di scuola del rapporto strumentale degli umanisti con l’informatica prevalente prima dell’avvento del web e dei motori di ricerca. In- fatti, per Roberto Busa quello che allora molti chiamavano «cervello elettroni- co» era una preziosa risorsa che si aggiungeva alla cassetta degli attrezzi dello studioso, perché in teoria l’immane lavoro si sarebbe potuto realizzare anche senza l’ausilio della macchina; tant’è vero che le prime tecnologie usate erano analogiche e meccaniche, non digitali. Inutile aggiungere che sarebbe vano cercare nella personalità intellettuale di Roberto Busa tracce di quello che è stato definito il cuore utopico delle Digital Humanities, radicato nella controcultura cyber degli anni ’70. Il padre gesuita per tutta la vita è rimasto un umanista prestato all’informatica, che non chiedeva al computer di «cambiare il mondo» né tantomeno di risolvere i problemi erme- neutici del pensiero tomistico, ma più modestamente di fornire un mezzo rapi- do e affidabile per realizzare lo strumentario lessicale di supporto agli studiosi dell’opera e del pensiero di san Tommaso. In questa prospettiva, dunque, la tecnologia esegue il compito che lo studio- so le assegna in vista della realizzazione dei suoi scopi e forse non è un caso se, nel suo sviluppo storico, la collaborazione tra linguisti computazionali e umani- sti in molti casi non ha superato il livello dell’analisi automatica dei dati lingui- stici, nella sostanziale autoreferenzialità delle rispettive competenze; chiusura che ha raggiunto il punto di rottura con il diffondersi, alla fine degli anni ’90, di metodi stocastico-statistici di apprendimento automatico del linguaggio natura- le, che tendono a ridimensionare, se non addirittura ad escludere, il ruolo di linguisti e psicologi. Questo approccio strumentale lo ritroviamo anche tra quanti si occupano di un «mondo di carta» fatto di manoscritti, documenti, libri e che nel loro lavoro utilizzano le risorse informatiche per la catalogazione e l’allestimento di banche dati per le ricerche bibliografiche. Particolarmente istruttiva è l’esperienza di archivisti e bibliotecari impegnati nell’elaborazione dei metadati, cioè dell’insieme delle informazioni strutturate identificative di manoscritti e libri, utilizzati per la catalogazione e il recupero delle risorse digitali. Per quanti operano nel nuovo ambiente digitale non è dif- ficile riconoscere il collegamento esistente tra gli attuali metadati, che utilizzano i linguaggi di marcatura, e la prassi catalografica tradizionale effettuata attraver- so schede bibliografiche suddivise in aree e campi. In altri ambiti disciplinari il passaggio alla cultura digitale è stato più com- plesso e ricco di opportunità. In particolare i cultori di studi filologici e di criti- ca letteraria si sono avvalsi dell’informatica adattandola in modo creativo al proprio modus operandi, passando dalle edizioni critiche presentate in formato ipertestuale alle edizioni critiche scientifiche born-digital. Il futuro degli studi umanistici 5 In generale dobbiamo però riconoscere che, nonostante gli studi, avviati fin dagli anni Sessanta, sui cambiamenti strutturali in atto nella nascente società dell’informazione, gli umanisti sono stati restii a confrontarsi con le sollecita- zioni, le sfide e le implicazioni culturali e sociali delle nuove tecnologie, limi- tandosi in molti casi ad un loro uso pre-cognitivo; valga per tutti il progetto Gutenberg, lanciato nei primi anni Settanta con il fine dichiarato di promuove- re la lettura attraverso la creazione di un archivio di immagini digitali di fonti primarie, a vantaggio degli studiosi che risparmiavano tempo e fatica nel repe- rimento dei corpora dei classici antichi e moderni. Ancora oggi in molti diparti- menti universitari e centri di ricerca, all’informatica è assegnata la funzione an- cillare di facilitare la ricerca umanistica tradizionale, quando non si tratta di una mera tecnica per il trasferimento della nostra memoria culturale dai supporti analogici a quelli digitali: ciò forse spiega perché difficilmente un’opera di uma- nistica digitale sarà citata dai cultori della disciplina pertinente se non come ri- sorsa accessoria al proprio lavoro ermeneutico. Ma, come ci ricorda Jeffrey Schnapp, un uso del digitale che si limiti ad immagazzinare e conservare il pa- trimonio culturale «è ormai insufficiente», perché «in fin dei conti la sua impor- tanza riguarda principalmente il mondo analogico, ovvero la possibile trasfor- mazione del mondo in cui viviamo»3. Sebbene fin dagli anni Ottanta del secolo scorso l’informatica umanistica più avvertita avesse ben chiare le implicazioni epistemologiche della diffusione del paradigma computazionale nell’ecosistema culturale caratterizzato dalla co- stante interazione uomo-macchina, la riflessione critica sui recenti sviluppi delle Digital Humanities stenta a decollare. Come a chi ha in mano un martello ogni cosa sembrerà un chiodo, così chi usa il computer finirà col vedere dappertutto una serie discreta di elementi computabili. Questa affermazione, che parrebbe evocare il diavoletto luddista sempre in agguato, è piuttosto un invito a riflettere sul fatto che il computer, a differenza di altre tecnologie, non è una macchina che si limita a lavorare per noi, bensì è un dispositivo personale per la mente, che orienta interessi e dirige il lavoro intellettuale verso un universo info-centrico dove sempre più spesso il «mezzo» diventa il «fine». Anche se non ce ne accorgiamo, lo schermo del computer riflette una visione del mondo: ad esempio l’ordine di presentazione dei risultati di un motore di ricerca condiziona la nostra percezione e valuta- zione della loro effettiva rilevanza, che, d’altro canto, cambierà in relazione alle nostre queries, fagocitate da criteri di ranking costantemente modificati e mante- nuti segreti dalle aziende unicamente impegnate a tutelare gli interessi econo- mici degli azionisti. Il dibattito attuale sul presente e sul futuro delle discipline umanistiche si in- treccia con quello sulle Digital Humanities e presenta molte sfaccettature. 3 J. Schnapp, Digital Humanities, Milano, Egea, 2015, p. 61. Roberto Mazzola 6 Vorrei affrontare la questione dal punto di vista di quanti nel nostro paese fan- no la scelta di esercitare le discipline umanistiche come professione, dando, ovviamente, per scontate le competenze digitali dei futuri umanisti. Nell’ultimo decennio, passata la paura dell’espulsione dell’informatica uma- nistica dalle università auspicata dalla ministra Moratti, grazie ad una nuova le- va di ricercatori formatisi nei corsi di laurea e master di informatica umanistica, non solo abbiamo assistito alla costante migrazione in rete delle forme tradi- zionali della circolazione del sapere umanistico, ma anche all’emergenza di una nuova figura professionale, l’umanista digitale, che lentamente e inesorabilmen- te sta modificando il «mestiere» dell’umanista. Un mestiere che è stato in passato ed è ancora, non si sa per quanto tempo, un insieme di tecniche e metodi di ricerca, costantemente perfezionati e rinno- vati, di lenta rielaborazione personale delle conoscenze accumulate nel tempo; un mestiere che, al di là degli specialismi, è adesione a regole di condotta non scritte, a indirizzi culturali condivisi da comunità di studiosi, piccole o grandi che siano. È soprattutto spirito critico, esercitato nel rispetto della pluralità di metodi di indagine, di analisi e argomentazione in vista del fine comune di pro- durre nuove conoscenze. Se le attività che siamo soliti associare alla pratica umanistica cadranno in di- scredito, quanti in futuro saranno ancora disposti a spendere tempo e fatica per un apparato di note a piè di pagina ben fatto, o per redigere una bibliografia ragionata di libri effettivamente letti? Per quanto tempo ancora la monografia costituirà la modalità principale di scrittura accademica? Come sottolineava Max Weber, il Beruf, il mestiere, di chi esercita la scienza come professione è fatto di competenza alimentata da passione disinteressata per la conoscenza4. Ed è a questo mestiere, nella duplice accezione weberiana di professione e vocazione, che all’umanista è chiesto di rinunciare quando è chiamato a fornire i cosiddetti contenuti spendibili sul mercato delle applicazioni degli ultimi ri- trovati tecnologici di realtà aumentata o virtuale, dove cultura e svago si fon- dono e si confondono o che, nel peggiore dei casi, sono miseramente destinati a rimanere alla fase alpha o a finire in demo di software che non vedranno mai la luce. La dimensione per così dire artigianale degli studi umanistici già oggi non rappresenta più la tipica esperienza formativa delle nuove generazioni, e ancora meno lo sarà in futuro, quando le tecnologie digitali orienteranno le strategie didattiche e i processi educativi come auspicato, ad esempio, dal progetto mini- steriale «Piano Scuola Digitale» o dalla sperimentazione nelle scuole primarie di «Smart School» sponsorizzata da Samsung Italia. Anche se siamo ancora lontani dagli eccessi nordamericani, le recenti colla- borazioni attivate dalle università di Bologna, Napoli e Venezia con Google, Apple e Samsung vanno nella direzione di un sempre più invasivo intervento 4 M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Torino, Einaudi, 2004. Il futuro degli studi umanistici 7 dei colossi del web anche nella formazione delle future generazioni di umanisti digitali inseriti e integrati nell’universo multimediale del web, sempre e dovun- que disponibile grazie all’interoperabilità dei diversi dispositivi di connessione, resi sempre più friendly, o per dirla politically incorrect «a prova d’idiota». A fronte degli impetuosi sviluppi tecnologici, ripensare il ruolo della cultura umanistica senza cadere nella trappola di combattere un’anacronistica battaglia di retroguardia ammantata di retorica «resistenziale», che in realtà finisce per accettare acriticamente l’ineluttabilità dell’esistente, significa, tra l’altro, situare la riflessione critica nel luogo strategico della diffusione dei dispositivi del sape- re/potere della cultura digitale. Mi riferisco ai finanziamenti delle discipline umanistiche che, com’è noto, non solo in Europa, sono irrilevanti se paragona- ti alle risorse destinate alle scienze. Non si tratta di un fenomeno nuovo, ma, a differenza di quanto accadeva ancora in un recente passato, sempre più spesso i responsabili delle decisioni politiche non solo stabiliscono quanto, ma anche come spendere. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: basti considerare l’aumento esponenziale dei fondi europei destinati a progetti, meglio se di breve periodo e transnazionali, finalizzati a promuovere l’accesso alla cultura attraverso mezzi digitali, rispetto ai fondi assegnati alla ricerca di base senza ricadute economi- che o a progetti individuali di lungo periodo i cui risultati non possono essere previsti. Nelle università e nei centri di ricerca la già difficile lotta per la sopravviven- za degli umanisti nella giungla del «pubblica o muori» è resa ancora più aspra dall’imperativo del «digitalizza o muori». Se il fine di un singolo o di un gruppo che ottiene un finanziamento è quello di aumentare le chances di ottenerne altri in futuro, e uno dei modi più semplici per continuare a ottenere fondi è quello di partire non dai propri interessi ma dalla tecnologia, può capitare così di portare avanti progetti eterodiretti da inte- ressi politici ed economici. Nel prossimo futuro, possiamo esserne certi, le pos- sibilità di finanziamento aumenteranno ulteriormente se alla parola chiave Digi- tal si aggiungerà quella di Big Data, indispensabile alle Big Humanities, che come ogni Big Science che si rispetti richiede un alto livello di infrastrutture tecnologi- che e risorse economiche significative. La disperata ricerca di fondi pone le Digital Humanities in una condizione di difficile equilibrio tra l’adattare i progetti alla dimensione imprenditoriale ri- chiesta dai partner istituzionali e salvaguardare l’autonoma sperimentazione di forme di produzione, comunicazione e circolazione della cultura umanistica, che riutilizzino il materiale presente in rete, il cui costo è praticamente pari a zero5. All’inizio abbiamo visto che i Big Data rendono velocemente fruibile l’enor- me volume di informazioni provenienti dalle più svariate fonti, utilizzabili per gli scopi più disparati. Vediamo ora alcuni esempi concreti del loro utilizzo in ambito umanistico. 5 Vedi ad esempio . http://www.bibliotecanapoletana.it/ Roberto Mazzola 8 Con velocità sorprendente, se pensiamo ad esempio ai magri risultati fino ad oggi conseguiti dal ventennale sforzo di dar vita alla Biblioteca Digitale Italiana, dal 2004 Google ha digitalizzato decine di milioni di libri e, poiché la digitaliz- zazione di per sé non fornisce dati, grazie all’OCR omni-font i testi sono stati resi indicizzabili. La miniera di informazioni così ottenuta ha permesso al- l’azienda non solo di migliorare i servizi di controllo ortografico e di traduzione automatica, ma anche di sperimentare nuove forme di analisi testuale automati- ca. Un primo saggio delle potenzialità dell’approccio quantitativo-probabilistico ai libri è stato offerto da due studiosi che, con il sostegno finanziario di Goo- gle, hanno utilizzato un software che ha «letto» circa cinque milioni di libri. La versione del programma, Ngram Viewer6, accessibile gratuitamente, presenta i grafici della rilevanza di singole parole o frasi nel corso dei secoli e nelle varie aree linguistiche: un metodo di analisi che, secondo gli autori, rappresenterebbe una rivoluzione copernicana delle scienze umane, perché la neonata scienza, definita «culturomica»7, mapperà l’intero patrimonio culturale dell’umanità così come è avvenuto con quello genetico. I fautori del distant reading tengono sem- pre a precisare che l’analisi algoritmica dei testi letterari arricchisce e non sosti- tuisce le competenze e i metodi tradizionali. Cosa sicuramente vera nel caso di Franco Moretti8, ma non per quanti propugnano la teoria della fine delle teorie. Google, animato dall’ambizioso progetto che Siva Vaidhayanathan ha defi- nito la googlizzazione della conoscenza9, non si è fermato ai libri e nel 2011 ha an- nunciato la nascita del Google Cultural Institute, che prefigura l’infrastruttura cul- turale globale del XXI secolo. Come per la digitalizzazione dei libri, l’obiettivo dichiarato è quello di ren- dere accessibile a tutti il patrimonio artistico e culturale dell’umanità. Una gene- rosità che a voler essere benevoli possiamo considerare una versione aggiornata del mecenatismo diffuso tra i paperoni statunitensi del secolo scorso o, a pen- sar male, un modo astuto di entrare nel ricco business dell’industria culturale, in particolare fornendo nuovi prodotti e servizi al fiorente mercato del turismo culturale. Del resto i magnati di Internet si dedicano alla filantropia in modo nuovo. A differenza dei Robber Barons del secolo passato, come Andrew Carne- gie, John D. Rockfeller e Andrew Mellon, che elargivano denaro per borse di studio, per costruire ospedali, scuole, biblioteche ecc., con l’obiettivo di mitiga- re le diseguaglianze della società americana, i tecnofilantropi della Silicon Valley 6 Gli n-grammi nella terminologia della linguistica computazionale sono le occorrenze di una parola o di una frase misurate nel corso di un certo periodo di tempo. 7 E. Aiden - J.B. Michel, Uncharted, Big Data as a Lens on Human Culture, New York, River- head Books, 2013. 8 F. Moretti, La letteratura vista da lontano, con un saggio di A. Piazza, Torino, Einaudi, 2005; Id., Distant Reading, London-New York, Verso Books, 2013. A testimonianza delle sterminate letture di Franco Moretti vedi la sua recente prova di raffinata critica letteraria: Il borghese. Tra storia e letteratura, traduzione di Giovanna Scocchera, Torino, Einaudi, 2017 (ed. orig.: The Bour- geois: Between History and Literature, 2013). 9 S. Vaidhayanathan, La grande G. Come Google domina il mondo e perché dovremmo preoccuparci, Milano, Rizzoli, 2012, pp. 175-203. Il futuro degli studi umanistici 9 operano su scala planetaria, promuovendo iniziative sulle quali mantengono il pieno controllo grazie all’ambiguo statuto giuridico delle loro fondazioni, come ad esempio quelle dei Gates, dei Bezos o degli Zuckerberg, che rende labile il confine tra non profit e for profit. Diversamente da Google Books, che ai suoi esordi ha incontrato non poche resistenze anche sul piano legale10, la nascita del Google Cultural Institute è stata salutata da un coro unanime di entusiastici consensi, scatenando una vera e propria caccia alla partnership da parte di enti ed istituzioni pubbliche e private, mentre critici d’arte e curatori di mostre «plaudono alla scure che li decapite- rà»11. Ovviamente una particolare attenzione è dedicata al Bel Paese, oggetto dell’accurata indagine di Elisa Bonacini12. L’organizzazione della piattaforma in tre sezioni – Art Project, Momenti storici e World Wonders – ricalca quella del parco a tema, una sorta di Disney- land dell’immaginario culturale collettivo. Non è né un «luogo» né un «non luogo», nel senso indicato da Marc Augé, ma piuttosto un neo-luogo che con- sente la visita a distanza di siti archeologici, musei virtuali, oltre ad offrire foto e materiale documentario provenienti da istituzioni o singoli utenti. Le soluzioni tecniche adottate per allestire un museo virtuale ne orientano la fruizione, determinando il tipo di esperienza estetica e culturale dell’utente. Se, ad esempio, vogliamo visitare comodamente seduti sul divano di casa il museo dell’Ermitage di Pietroburgo, ospitato in quello che fu il palazzo d’inverno de- gli Zar, possiamo farlo nelle modalità standardizzate di narrazione offerta da Google, fatta di immagini ad altissima definizione, percorsi immersivi e altro ancora. Ma è questa l’unica possibilità per conoscere l’Ermitage a distanza? No, se alla passione per l’arte uniamo quella per il cinema e ci guardiamo Arca russa. Il film diretto nel 2002 da Aleksandr Sokorov, e girato in digitale, colpisce i ci- nefili perché è realizzato senza stacchi e senza montaggio. La scelta del piano sequenza non è un virtuosismo di maniera, perché il flusso ininterrotto di im- magini per un’ora e mezza ci accompagna in un viaggio nel tempo che ci fa rivivere non solo la storia delle collezioni d’arte, ma anche le vicende dei per- sonaggi che quelle opere raccolsero. Dal momento che Google non vuole vivere solo in rete, nel 2013 ha scelto una città dall’alto valore simbolico come Parigi quale sede europea dell’Istituto, dove è ospitato anche il Lab, campus incubatore di nuove forme di collabora- zione tra arte e tecnologia. Numerosi code artists, così definiti per marcare la di- stanza dai computer artists del recente passato, sono ospitati per realizzare un’impresa che avrebbe scoraggiato anche il più ottimista degli enciclopedisti francesi del secolo dei Lumi: dare un senso a sette milioni di pezzi digitalizzati. 10 R. Mazzola, Google Books e le scienze (post)umane, in «Laboratorio dell’ISPF», XII, 2015, DOI: 10.12862/ISPF15L405. 11 N. Wiener, Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 176. 12 E. Bonacini, Google e il patrimonio culturale italiano, in «SCIRES it», IV, 2014, 1, pp. 25-40 . http://dx.medra.org/10.12862/ispf15L405 http://caspur-ciberpublishing.it/index.php/scires-it/article/view/10911/10116 Roberto Mazzola 10 Il compito loro affidato è quello di collaborare per rendere «creativi» i più avanzati software di apprendimento automatico di cui Google dispone. I risul- tati sono presentati nella sezione dedicata agli esperimenti condotti nel Lab. Fra gli esperimenti si distingue «x-degree-of-separation» che riprende l’idea dei sei gradi di separazione legata agli esperimenti condotti negli anni Sessanta da Stanley Milgram. Gli ingegneri e i code artists di Google hanno applicato il Machine Learning per scoprire modelli in grado di trovare percorsi tra due immagini di manufatti qualsiasi scelti dall’utente, che vengono collegati tra loro attraverso una catena di somiglianze di forma e colore. Poiché la galleria di immagini proposta può destare un qualche sconcerto, l’azienda consiglia di usare il prodotto come una vera e propria macchina di serendipità. E stando al gioco, poiché parliamo di trovare ciò che non si cerca, non posso fare a meno di riferire del corto circuito suscitato in me dall’animazione de la caduta degli angeli ribelli di Brueghel il vec- chio, frutto della nostalgia di un nipotino di Timoty Leary per i paradisi artifi- ciali evocati dagli stati di coscienza alterati dei bei tempi andati, come si diceva una volta, ma che ora non usa più. All’interno dell’istituto parigino i visitatori trovano l’occorrente per costruir- si il proprio visore di realtà virtuale per smartphone, il cardbord, che credo fa- rebbe inorridire Jerome Lanier, il quale sperava che «in futuro, la gente userà collettivamente la realtà virtuale per socializzare»13. Le esperienze di realtà aumentata e virtuale offerte da Google sono, a mio avviso, piuttosto un ritorno alle forme di spettacolo ottico diffuse prima del- l’avvento del cinematografo, che proponevano viaggi simulati nel variegato mondo delle immagini dei vari Panorama, Diorama, Cosmorama e Sensorama ancora presenti alle esposizioni universali tra Otto e Novecento, riattualizzate in chiave futuribile all’Esposizione Universale di New York del 1939, dedicata a The World of Tomorrow e poi nell’attrazione Tomorrowland a Disneyland inaugu- rata nel 1955. Con un altro corto circuito il visore di Google mi ha ricordato l’ottico Dip- pold cantato da Fabrizio De Andrè, che promette di dare ai clienti la luce che trasforma il mondo in un giocattolo: Daltonici, presbiti, mendicanti di vista Il mercante di luce, il vostro oculista, Ora vuole soltanto clienti speciali Che non sanno che farne di occhi normali. Non più ottico ma spacciatore di lenti Per improvvisare occhi contenti, Perché le pupille abituate a copiare Inventino i mondi sui quali guardare 13 Intervista dell’8 marzo 1998, disponibile all’URL . http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/lanier.htm http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/lanier.htm Il futuro degli studi umanistici 11 Seguite con me questi occhi sognare Fuggire dall’orbita e non voler ritornare Rendere viva l’arte del passato non è impresa facile e se il museo tradiziona- le è stato accusato, con qualche ragione, di essere la tomba dell’arte, il rischio di quello virtuale è di trasformarsi nel suo cenotafio. Vorrei concludere con l’invito all’ottimismo proveniente da una fonte a dir poco inaspettata. Di recente l’esperto di machine learning Pedro Domingos, ribal- tando il luogo comune secondo il quale le discipline umanistiche hanno «im- boccato una spirale che le condurrà alla morte», si è detto convinto che le pro- spettive a lungo termine degli scienziati non appaiano le più rosee. Infatti, sot- tolinea, «in futuro gli unici scienziati a sopravvivere potrebbero essere gli in- formatici». Cosicchè, quando computer e robot sapranno fare tutto meglio di noi, aumenterà il valore del contributo degli umanisti, il cui campo d’azione «è tutto quello che non si può capire se non si è un essere umano»14. Buon lavoro. 14 P. Domingos, L’algoritimo definitivo. La macchina che impara da sola e il futuro del nostro mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, p. 319. Laboratorio dell’ISPF ISSN 1824-9817 www.ispf-lab.cnr.it Roberto Mazzola ISPF-CNR, Napoli mazzola@ispf.cnr.it – Il futuro degli studi umanistici al tempo dei Big Data Citation standard MAZZOLA Roberto. Il futuro degli studi umanistici al tempo dei Big Data. Laborato- rio dell’ISPF. 2018, vol. XV (11). DOI: 10.12862/Lab18MZR. Online first: 15.06.2018 Full issue online: 21.12.2018 ABSTRACT The future of Humanities in the era of Big Data. This article proposes a critical enquire about the impact of the new wave of digital technologies on humanistic disciplines. Today humanists are called to accept the challenge of redefining their role in the age of globalization of culture. In the last twenty years, the widespread diffusion of the world wide web, search engines and social networks has definitively fostered a crisis of confidence about the idea of a purely instrumental use of the computer in order to facilitate the traditional humanistic research. More recently, the introduction of Big Data, remote reading, machine learning resources, products and tools have begun a process of radical transformation of the very practices of the Digital Humanities. In a more and more web-based digital environment, the humanistic research requires a high level of specialization, scientific expertise and technology infrastructures as well as massive funding. KEYWORDS Digital Humanities; Big Data; Distant Reading; Google Cultural Institute SOMMARIO L’articolo propone un’indagine critica sull’impatto della nuova ondata di tecnologie digitali nel campo delle discipline umanistiche. Oggi gli umanisti sono chiamati ad ac- cettare la sfida di ridefinire il loro ruolo nell’era della globalizzazione della cultura. Ne- gli ultimi vent’anni, la diffusione capillare del web, dei motori di ricerca e dei social network ha definitivamente messo in crisi l’idea di un uso puramente strumentale del computer per facilitare la tradizionale ricerca umanistica. Più recentemente, l’introduzione di Big Data, lettura a distanza, prodotti e strumenti di machine learning hanno avviato un processo di trasformazione radicale anche nelle stesse pratiche di Digital Humanities. In effetti, la ricerca umanistica in un ambiente digitale sempre più basato sul web richiede un alto livello di specializzazione, competenza scientifica e infrastrutture tecnologiche, oltre a finanziamenti massicci. PAROLE CHIAVE Digital Humanities; Big Data; Distant Reading; Google Cultural Institute http://www.ispf-lab.cnr.it/