03 Discussioni 4-04
Descrizione e delimitazione dell’ambito
Le origini – recenti, remote, remotissime – dell’informatica umanistica sono intrec-
ciate con lo studio dei testi attraverso i libri a stampa prima e i ‘libri digitali’ poi. La
vulgata diffusa in Italia e fuori d’Italia vede le origini dell’informatica umanistica
nei lavori di Roberto Busa per la creazione dell’Index Thomisticus, che comportò la
realizzazione di una biblioteca digitale ante litteram perché i testi del corpus tomisti-
co vennero integralmente trascritti su schede perforate per poter essere acquisiti dai
computer e poi elaborati. Ma ci sono stati nella seconda metà del secolo scorso alme-
no altri due progetti fondativi per l’informatica umanistica, per l’influenza che ebbe-
ro nel darle forma e per il ruolo o per gli effetti che continuano ad avere: gli studi
sulla Bibbia greca dei Settanta e il Thesaurus linguae Graecae. In entrambi i casi la digi-
talizzazione delle opere (i libri della Bibbia greca nel primo caso, le opere della let-
teratura greca arcaica e classica, poi estesasi al periodo bizantino, nel secondo) diede
luogo alla creazione di collezioni di testi digitalizzati, all’epoca spesso chiamati corpo-
ra o «database testuali». Scopo primario degli utenti di questi corpora era ed è tutt’o-
ra la ricerca di informazioni all’interno dei testi cioè una attività centrale dell’am-
bito della Library and information science1 – ricerca mossa dall’intenzione di una nuova
modalità di lettura del testo letterario, quella basata sulle concordanze, in cui si cer-
cano parole rilevanti, od oscure, e si studiano le parole sulla base dei contesti e i con-
testi sulla base delle parole che contengono. Si tratta di una lettura che non richie-
de il digitale e può essere praticata sui testi a stampa o addirittura sui manoscritti.
Infatti le prime concordanze, che sono un tipo di pubblicazione scientifica, venne-
ro prodotte nel XIII secolo a Parigi ad opera di Hugues de Saint Cher e hanno per
intersezioni
MAURIZIO LANA, Università degli studi del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”, Dipartimento di
studi umanistici, Vercelli, e-mail maurizio.lana@uniupo.it.
Questa ricerca è stata realizzata con il contributo di fondi forniti dall’Università degli studi del Piemon-
te orientale “Amedeo Avogadro”.
Ultima consultazione siti web: 15 maggio 2019.
1 Sull’argomento si vedano le riflessioni che Hiørland sviluppa sull’arco di una ventina d’anni, da Bir-
ger Hjørland, Library and information science: practice, theory, and philosophical basis, «Information
processing & management», 36 (2000), n. 3, p. 501-531, DOI: 10.1016/S0306-4573(99)00038-2; a Id.,
Library and information science (LIS), Part 1, «Knowledge organization», 45 (2018), n. 3, p. 232-254,
DOI: 10.5771/0943-7444-2018-3-232, con grande spazio a come la costellazione semantica e temati-
ca dell’information seeking caratterizzi l’ambito disciplinare della LIS.
aib studi, vol. 59 n. 1-2 (gennaio/agosto 2019), p. 185-223. DOI 10.2426/aibstudi-11862
ISSN: 2280-9112, E-ISSN:2239-6152
Digital humanities
e biblioteche
di Maurizio Lana
oggetto la Bibbia latina, mentre i primi studi che innervano di matematica e stati-
stica gli esiti delle concordanze si collocano nell’Europa orientale all’inizio dell’Ot-
tocento e si basano anch’essi su collezioni di testi, per esempio le opere di Platone.
Si tratta però di una lettura raramente praticata dagli studiosi nonostante il famoso
invito di Gianfranco Contini: «Non c’è che da cominciare a preparare un po’ di sche-
de perforate per il nostro ‘robot’ filologico: allestire spogli o anzi glossari completi
di più testi o autori che si possa, anche di breve respiro. Come già mi accadde di sug-
gerire altra volta, io vi esorto alle Concordanze»2 anche solo perché le concordanze
a stampa di un autore costituivano un prodotto editoriale piuttosto raro a causa del-
l’impegno creativo e produttivo (non a caso Contini invitava alle concordanze in
un contesto digitale parlando di «schede perforate per il nostro ‘robot’ filologico»:
ma anche così non era cosa semplice in termini operativi). Le concordanze a stam-
pa erano disponibili solo per i capisaldi della cultura e del pensiero: la Bibbia, Virgi-
lio, Seneca, I promessi sposi, giusto a titolo d’esempio. La disponibilità di testi in for-
mato digitale e di una varietà di programmi per la generazione di concordanze, o
più in generale per la ricerca di testo nei testi, ha molto facilitato questa modalità di
studio che rimane comunque poco diffusa.
Investigare la relazione tra campo disciplinare della Library and information scien-
ce e Digital humanities mette in luce una varietà di temi che aiutano sia a delineare
quale spazio la Library and information science possa avere nello sviluppo in atto nel
mondo delle Digital humanities sia a capire meglio il passato delle Digital humanities.
Poiché il contesto di studio in cui si opera è quello del mondo digitale, le bibliote-
che di cui si parla sono anch’esse biblioteche digitali, cioè biblioteche il cui conte-
nuto è in formato digitale, perché il testo delle opere è disponibile ai lettori/utenti
in uno dei tanti formati testuali come TXT, EPUB, XML, PDF e altri ancora; ma a cui
è sottesa una precisa e innovativa concezione dell’organizzazione della conoscen-
za3. Le biblioteche che qui abbiamo chiamato digitali (in inglese digital libraries) sono
anche chiamate biblioteche elettroniche (electronic libraries) o biblioteche virtuali
(virtual libraries). Le tre espressioni non sono neutre, hanno specifici significati anche
legati a fasi storiche e quindi non sono equivalenti. Analoga analisi per quanto riguar-
da l’espressione Digital humanities: anni fa in Italia questo ambito di studi si chia-
mava «informatica umanistica», ma questa denominazione è progressivamente stata
soppiantata da quella angloame ricana, più ampia. Indagare, concisamente, la sto-
ria di queste denominazioni aiuta a cogliere l’evoluzione di ambiti in cui general-
mente la presenza della tecnologia finisce con l’appiattire tutto su un eterno pre-
sente (accade per tutti gli ambiti tecnologici, ma per gli ambiti in cui si utilizzano le
tecnologie informatiche la cosa è ancora più evidente) che ostacola una conoscen-
za approfondita. Da una conoscenza più sfaccettata e fondata dell’ambito delle Digi-
tal humanities si potrà poi muovere verso una riflessione su quale potrebbe essere in
futuro la relazione tra Digital humanities e biblioteche.
intersezioni186
2 Gianfranco Contini, Esperienze di un antologista del Duecento poetico italiano. In: Studi e problemi
di critica testuale: convegno di studi di filologia italiana nel centenario della commissione per i testi
in lingua, Bologna, 7-9 aprile 1960. Bologna: Commissione per i testi di lingua, 1961, p. 272.
3 Alberto Salarelli; Anna Maria Tammaro, La biblioteca digitale. Milano: Editrice bibliografica, 2006.
4 Ben Showers, Does the library have a role to play in the digital humanities?, «JISC - Digital Infra-
structure Team», 23 febbraio 2012, .
Le biblioteche a cui si fa riferimento in questo contributo sono sostanzial-
mente quelle del circuito della ricerca (accademiche, speciali, di ricerca ecc.).
Ciò sembrerebbe portare verso lo sviluppo di un discorso non interessante per
le public libraries (biblioteche civiche, biblioteche di comunità locale) ma non
è detto che sia così:
I think librarianship can go further by incorporating digital humanities com-
puting techniques into our systems and services. For example, why not pro-
vide concordance services against all of the full text items in our collections.
Why not allow readers to create small corpuses of library content and then pro-
vide n-gram services, entity-recognition services, or parts-of-speech extraction
service against the result
4
.
Ciò che Showers prospetta è certamente un esito complesso e di alto livello scienti-
fico dell’integrazione di Digital humanities e Library and information science, ma for-
nire «concordance services against all of the full text items in [the] collections» cioè
rendere possibili ricerche full text all’interno delle collezioni aiuterebbe ‘tutti i let-
tori, in qualunque tipo di biblioteca, e soprattutto i lettori meno esperti’, a trovare
le pubblicazioni di loro interesse. Analoga considerazione vale per il fornire un entity-
recognition service5 (che è il passo successivo al servizio di concordanza): anche in
esso c’è dimensione di utilità pratica per tutti i lettori benché appaia a prima vista
focalizzato su una finalità di ricerca scientifica. Naturalmente il quadro delineato da
Showers non è semplice da realizzare a breve termine nel qui e ora, ma il suo signifi-
cato è prospettico: indica una finalità comples siva che può informare gli sviluppi
dell’attività e dei servizi.
Infine ricordiamo, ma è ovvio, che il digitale in biblioteca non significa solo
biblioteca digitale ma anche creazione di un’infrastruttura comunicativa finalizza-
ta a favorire l’engagement e la par tecipazione di nuovi pubblici attraverso specifiche
strategie di comunicazione e di digital story te lling6.
Biblioteche elettroniche, virtuali, digitali
Piuttosto che basarsi su interpretazioni personali pare opportuno cercare per
quanto possibile evidenze o almeno indizi documentali sulle tre aggettivazio-
ni della biblioteca: elettronica, virtuale, digitale. Lo strumento di analisi testua-
le «Ngram viewer» di Google books benché non operi su testi successivi al 2008
fornisce indicazioni interessanti sull’evoluzione nel tempo della presenza delle
tre espressioni digital library, virtual library, electronic library nei testi a stampa in
lingua inglese.
intersezioni 187
5 Un servizio di riconoscimento di entità denominate individua (e per quanto possibile disambigua)
in un testo nomi di persona, nomi di luogo, unità di misura, distanze, date.
6 Maria Cassella, Comunicare con gli utenti: Facebook nella biblioteca accademica, «Biblioteche oggi»,
28 (2010), n. 6, p. 3-12; Juliana Mazzocchi, Blog e social network in biblioteca: strumenti complemen-
tari o antagonisti?, «Biblioteche oggi», 32 (2015), n. 4, p. 20; Gino Roncaglia, Social network e ricon-
quista della complessità: il ruolo della biblioteche, «Biblioteche oggi», 32 (2015), n. 5, p. 4. Il Conve-
gno Stelline del 2014 era intitolato “La biblioteca connessa: come cambiano le strategie di servizio al
tempo del social network”.
Figura 1 – Frequenza di electronic library, virtual library, digital library, nei libri in inglese di Google Books
Come si vede in Figura 1 nasce per prima l’espressione electronic library e la sua pre-
senza mostra un’onda lunga con culmine intorno al 1995 che corrisponde (cfr. Figu-
ra 2) al tempo in cui l’aggettivo elettronico era usato per caratterizzare aspetti del
mondo dell’informatica: riviste elettroniche, posta elettronica, e così via.
Figura 2 – Frequenza di electronic library, electronic journals,
electronic mail nei libri in inglese di Google books
Intorno al 1989 iniziano a comparire dapprima virtual library, che raggiunge il suo
culmine d’uso alla fine degli anni Novanta del secolo scorso in corrispondenza (come
si vede in Figura 3) del diffondersi nel discorso pubblico del tema della virtual reality,
Figura 3 – Frequenza di virtual library, virtual reality nei libri in inglese di Google books
intersezioni188
e subito dopo (cfr. ancora Figura 1) digital library la cui presenza è quantitativa-
mente molto rilevante, molto più delle precedenti espressioni, a segnalare un
progressivo diffondersi e affermarsi sia della res indicata da tale espressione sia
del discorso su di essa. Il 1989, anno in cui si collocano gli inizi delle due espres-
sioni virtual library e digital library è un anno chiave per il mondo digitale: è l’an-
no in cui ad opera di Tim Berners-Lee vengono inventati il protocollo di comu-
nicazione http e lo spazio digitale da esso definito, cioè il web. Di per sé, e quando
nasce, il web non è altro che uno dei vari software che definiscono ambienti di
comunicazione e interscambio (tra quelli nati in quegli anni, e quasi tutti obso-
leti, si possono ricordare FTP, Gopher, WAIS, Archie, Veronica, NetScape) ma per
la sua versatilità rapidamente diventa l’ambiente in cui ogni altra attività si può
svolgere, tanto che oggi ha soppiantato gli altri ambienti e finisce per essere iden-
tificato con Internet (e viceversa). Non stupisce dunque che sia con l’inizio degli
anni Novanta che iniziano a entrare in uso espressioni che indicano oggetti digi-
tali di nuovo tipo (virtual library, digital library), oggetti digitali che indicano l’e-
sistenza di ambienti innovativi che attraggono l’interesse di un numero di sog-
getti sempre più vasto.
In Italia la situazione è simile (per meglio dire, i libri scritti in italiano disponi-
bili in Google books delineano una situazione simile) come si può vedere in figura
Figura 4 – Frequenza di biblioteca digitale, biblioteca virtuale,
biblioteca elettronica nei libri in italiano di Google books
Si nota anche qui (benché in modo meno evidente rispetto a quanto appare dai libri
scritti in inglese) il culmine dalla curva dell’uso di «biblioteca elettronica» intorno
al 1995, quello dell’uso di «biblioteca virtuale» verso la fine degli anni Novanta e poi
la rilevante crescita quantitativa di «biblioteca digitale». Anche per le fonti in ita-
liano valgono le coincidenze temporali già mostrate per il contesto angloamerica-
no: l’uso di «biblioteca elettronica» è coevo a quello di «calcolatore elettronico, «rivi-
ste elettroniche», e l’uso di «biblioteca virtuale» ha il suo picco in corrispondenza
con quello di «realtà virtuale».
Che cosa ne emerge? Che in relazione a come si muove ed evolve la percezione e
la rappresentazione della relazione tra computer e società, così evolve la denomina-
zione della biblioteca che con quel mondo si connette, si relaziona. Ciò che è più inte-
ressante è che si tratta di un dato, non di un’ipotesi, che mostra che «la biblioteca»
spesso concepita sia all’interno sia all’esterno come un’entità molto stabile (statica:
in fin dei conti poche istituzioni culturali hanno una storia così lunga e sono così
autoidentiche come le biblioteche) è in realtà ‘anche’ capace di modificarsi per segui-
intersezioni 189
re le trasformazioni dei tempi e della società. Nel contempo si nota che oggi sono con-
temporaneamente in uso, sebbene in differenti proporzioni, le espressioni «bibliote-
ca digitale» e «biblioteca virtuale». Qui utilizzeremo l’espressione «biblioteca digita-
le» in quanto l’aggettivo ‘digitale’ indica in modo corretto una caratteristica rilevante
del contenuto della biblioteca7 e rimanda al fatto che la biblioteca esiste nel mondo
digitale8; mentre ‘virtuale’ parla della sua forma, e impropriamente perché virtuale
indica ciò che esiste in potenza ma non in atto, quando invece le biblioteche per quan-
to siano chiamate virtuali esistono in atto, nel mondo digitale.
Gli inizi delle Digital humanities9
Matthew Kirschenbaum10 colloca la nascita dell’espressione Digital humanities, che
è correntemente in uso per indicare il campo degli studi umanistici in cui si utiliz-
zano tecnologie informatiche, in corrispondenza di due eventi del 2005 fra loro indi-
pendenti: la pubblicazione del manuale intitolato A companion to digital humanities11
e l’unione della Association for Computers in the Humanities, statunitense, e della
Association for Literary and Linguistic Computing, europea, in una nuova entità
federale che venne denominata Alliance of Digital Humanities Organizations. Ad
essi si aggiunse nel 2006 l’istituzione all’interno dello statunitense National Endow-
ment for the Humanities di un programma di azione permanente che venne deno-
minato «digital humanities»12. All’inizio degli anni Duemila il campo che oggi viene
chiamato Digital humanities era chiamato in inglese (come si può osservare anche
intersezioni190
7 L’operazione di trasferimento di un contenuto dal mondo fisico al mondo ‘dei computer’ si chiama
propriamente digitalizzazione.
8 Per effetto del formato del contenuto la biblioteca digitale ha poi una serie di modalità di lavoro e
di opportunità di presenza nella società che le sono specifiche: «Da biblioteche digitali ‘centri di risor-
se’ a biblioteche ‘centri di comunità’! […] la biblioteca digitale non è quello che viene comunemente
inteso, cioè un deposito di contenuti digitali con servizi di ricerca collegati. L’idea centrale del con-
cetto di biblioteca digitale è che la facilitazione della conoscenza e l’azione sociale devono andare
insieme: ci sono molte possibili costruzioni sociali del mondo e ognuna di queste porta a una diver-
sa azione per diverse comunità.» (Anna Maria Tammaro, Biblioteca digitale partecipata: le sfide per i
bibliotecari, «AIB studi», 55 (2015), n. 2, p. 194, DOI: 10.2426/aibstudi-11215).
9 La denominazione Digital humanities è recente. In precedenza in ambito anglofono era dominante l’e-
spressione Humanities computing. Anche in Italia Digital humanities è correntemente in uso e ha sop-
piantato Informatica umanistica. In queste pagine per semplicità useremo generalmente (e in qualche caso
anacronisticamente) l’espressione Digital humanities, perché è così che oggi è denominato questo campo
di studi che pure esisteva già in precedenza. È ovvio che mutamenti di denominazione comportino sposta-
menti di prospettiva e quindi non siano irrilevanti, e di questo si terrà conto nelle pagine seguenti.
10 Matthew G. Kirschenbaum, What is digital humanities and what’s it doing in English departments?,
«ADE bulletin», 150 (2010), p. 55-61, DOI: 10.1632/ade.150.55.
11 A companion to digital humanities, edited by Susan Schreibman, Raymond George Siemens and
John Unsworth. Malden, MA: Blackwell, 2004, .
12 È interessante notare che le primissime attestazioni dell’espressione Digital humanities si trovano
nel 1997 e 1998 in pubblicazioni di ambito biblioteconomico: in Dennis Dillion, The changing role of
humanities collection development, «The acquisitions librarian», 9 (1997), n. 17-18, p. 10, DOI:
10.1300/J101v09n17_02, si legge: «As we have already seen, a good number of the currently available
dai nomi delle due associazioni statunitense ed europea appena citate) Computers
and humanities, Humanities computing, Literary computing, mentre in italiano si par-
lava di «Informatica umanistica» e di «Linguistica computazionale».
Gli scritti su temi relativi a biblioteche digitali e Digital humanities, ma anche su
temi di Digital humanities in senso ampio, si aprono spesso con una breve descrizio-
ne di che cosa si debba intendere per Digital humanities, a indicare implicitamente
che si tratta di un campo di studio il cui contenuto e i cui metodi non sono poi così
noti e che quindi essi devono essere in qualche misura dichiarati e spiegati a chi è
esterno a tale ambito. Le definizioni/descrizioni non solo variano nel contenuto ma
anche mostrano sostanziali diversità reciproche. Alcune che mostrano in evidenza
quest’alta variabilità sono raccolte qui di seguito.
The term digital humanities is being referred to more and more, as the cross-
road of information technologies and traditional humanities research. In my
short definition, it is the application of information technologies to analyzing
humanities as well as many interdisciplinary subjects
13
.
The fields of humanities computing and digital humanities have been evolv-
ing over several decades. Our working definition is “application of digital
resources and methods to humanistic inquiry” […]. Some consider the “process”
of DH to be part of the scholarship, while others see published outcomes as the
only true coins of the realm. The unit of DH is the project, which often requires
a one-off approach
14
.
Come condiviso dalla maggior parte degli studi in materia, data d’origine della
tradizione dell’informatica umanistica e� il 1949, anno in cui il progetto Index
Thomisticus di Padre Busa vede la luce. L’idea dell’avanguardistico gesuita di
Gallarate era appunto quella di produrre un indice di concordanze lemmatiz-
zate di tutte le parole presenti nel corpus testuale di Tommaso d’Aquino e altre
opere correlate
15
.
By “Digital Humanities” we mean not only philological applications but any
support of cultural-historical research using computer science
16
.
intersezioni 191
digital humanities resources are simply a reformatting of materials which the typical library already
owns»; e in David Green, The national initiative for a networked cultural heritage, «Information tech-
nology and libraries», 17 (1998), n. 2, p. 107, si legge: «Two early offshoots of its “Computing & human-
ities” initiative, cosponsored with the National Academy of Sciences, have been an internationally dis-
tributed database of digital humanities projects...». Le chiamiamo primissime attestazioni in quanto
esse non mutarono il contesto e non entrarono nel discorso corrente.
13 Hitoshi Kamada, Digital humanities: roles for libraries?, «College & research libraries news», 71
(2010), n. 9, p. 484-485, DOI: 10.5860/crln.71.9.8441.
14 Jennifer Schaffner; Ricky Erway, Does every research library need a digital humanities center?.
Dublin, Ohio: OCLC Research, 2014, p. 7, .
15 Federica Perazzini, Words, bytes and numbers: le Digital humanities “viste da vicino”, «Status
quaestionis», 2 (2014), n. 5, p. 171-193.
16 Dominic Oldman; Martin Doerr; Gerald de Jong, Realizing lessons of the last 20 years: a manifesto
for data provisioning and aggregation services for the Digital humanities (a position paper), «D-Lib
magazine», 20 (2014), n. 7-8, nota 7, DOI: 10.1045/july2014-oldman.
Developed in the late 1980s, the digital humanities primarily focused on design-
ing standards to represent cultural heritage data such as the Text Encoding Ini-
tiative (TEI) for texts, and to aggregate, digitize and deliver data
17
.
Given recent large investments in projects such as BAMBOO, DARIAH, and
CLARIN, there seems to be a certain consensus among funders and policy-
makers that there is a real need for the humanities to shift its methodology into
the digital realm. The report of the American Council of Learned Societies Com-
mission on Cyberinfrastructure for the Humanities and Social Sciences, for
example, heralds digital and computational approaches as drivers of method-
ological innovation in humanities
18
.
La variabilità delle descrizioni è correlata per un verso all’oggettiva complessità e
ramificazione del campo di studio ma per un altro anche al fatto che la complessità
sembra in qualche modo giustificare il fatto che chiunque dia del campo una descri-
zione personale; il che in genere non accade per altri ambiti disciplinari/scientifici.
Esiste comunque una descrizione condivisa e diffusa degli inizi delle Digital huma-
nities che vengono individuati solitamente nel lavoro di Roberto Busa, basato in Gal-
larate, per la realizzazione dell’Index Thomisticus (la concordanza delle opere di Tom-
maso d’Aquino) che comportò l’utilizzo dei computer IBM quando nessuno pensava
che un computer potesse elaborare altro che numeri.
Unlike many other interdisciplinary experiments, humanities computing has
a very well-known beginning. In 1949, an Italian Jesuit priest, Father Roberto
Busa, began what even to this day is a monumental task: to make an index of
all the words in the works of St Thomas Aquinas and related authors
19
.
Hockey è una studiosa autorevole ma, nel caso suo come di molti di coloro che tratta-
no questo argomento, si tratta di una spiegazione post eventum: perché l’incidenza del
lavoro di Busa, dagli inizi informatici nel 194920 fino verso gli anni Ottanta, estrema-
mente focalizzato sulle opere di Tommaso d’Aquino, sull’allora nascente contesto del-
l’informatica umanistica italiana è difficile da delineare: da un lato egli ad esempio col-
laborò alla redazione dell’Almanacco Bompiani del 1962 dedicato alle applicazioni dei
calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura21; ancora Busa fu tra i sosteni-
tori e collaboratori del Lessico intellettuale europeo nato nel 1970 da esperienze di alcuni
intersezioni192
17 Stefan Jänicke; Greta Franzini; Muhammad Faisal Cheema, On close and distant reading in digital
humanities: a survey and future challenges. In: Eurographics Conference on Visualization (EuroVis)-
STARs, a cura di R. Borgo, F. Ganovelli, I. Viola. [Geneve]: The Eurographics Association, 2015, DOI:
10.2312/eurovisstar.20151113.
18 Joris van Zundert, If you build it, will we come? Large scale digital infrastructures as a dead end for
digital humanities, «Historical social research / Historische Sozialforschung», 37 (2012), n. 3, p. 165-
186, .
19 Susan Hockey, The history of humanities computing. In: A companion to digital humanities cit., p.
3-19, DOI: 10.1002/9780470999875.ch1.
20 Data del primo incontro di Busa con il presidente dell’IBM Thomas Watson.
21 Almanacco letterario Bompiani 1962: le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali
e alla letteratura, a cura di Sergio Morando. Milano: Bompiani, 1961.
anni prima; e Antonio Zampolli poi fondatore nel 1968 dell’Istituto di linguistica com-
putazionale del CNR, negli anni successivi alla laurea, avvenuta nel 1960, si formò al
Centro per l’automazione dell’analisi linguistica di Busa a Gallarate. Ma online si tro-
vano meno di dieci suoi articoli scientifici pubblicati tra il 1949 e il 1980 dedicati alla pre-
sentazione degli aspetti ‘computazionali’ del progetto dell’Index. Vogliamo dire che per
molti anni il lavoro di Busa si svolse con ridotta circolazione di comunicazione e con
poca condivisione scientifica pubblica22 per una serie di ragioni ovvie: il tempo in cui
egli iniziò, la distanza siderale del suo progetto dalla pratica degli studi umanistici a quel
tempo, la modalità di pubblicazione e circolazione delle riviste. Il risultato fu che il lavo-
ro di Busa per molto tempo non fu granché conosciuto nel suo modo di procedere e
quindi non mise in movimento (non fu in grado di mettere in movimento) altro. Quin-
di Busa non fu un iniziatore nel senso di un individuo che coagula e catalizza energie
diffuse che riesce a mettere in movimento – passarono anni prima che si potesse dire
che esisteva in Italia un campo denominabile come informatica umanistica. Poi a un
certo punto quando l’informatica umanistica prese piede allora Busa trovò uno spazio
che lo riconobbe. Tant’è che la prima edizione dell’Index è del 197423 cioè si colloca in
un tempo in cui certamente qualcuno svolgeva embrionali attività in ambito letterario
con i calcolatori – ma erano attività isolate, non l’espressione di un ampio campo di atti-
vità e di studi. Quando invece furono inventati Internet e l’e-mail, una parte degli impe-
dimenti alla comunicazione cadde e per esempio sui CATSS e sul TLG ci fu tutt’altra dif-
fusione di comunicazione fra gli studiosi, che solo in parte però passava dalle riviste, che
erano ancora a stampa. Busa fu invece un iniziatore nel senso di primo: per lunghi anni
egli non trovò nessuno che lo seguisse in termini progettuali nel contesto filosofico-lin-
guistico-letterario perché era troppo avanti e nessuno intorno sapeva nemmeno che
cosa facesse, per così dire. In questa solitudine di pioniere per lunghi anni non ricono-
sciuto è una parte della sua grandezza per il campo delle Digital humanities.
Quindi sostenere che le Digital humanities ebbero inizio di lì, a indicare che quel
progetto fu il primo a mettere in campo una visione, dei computer e un gran nume-
ro di lavoratrici esclusivamente focalizzati sulla digitalizzazione dei testi e sulla loro
gestione, è senza dubbio vero; meno semplice affermare che, e come, il progetto ebbe
un significato ‘seminale’ per l’intero ambito che successivamente venne chiamato
informatica umanistica, cioè che ‘direttamente da esso nacquero altri progetti’ che
ne continuarono e svilupparono l’esperienza e le conoscenze.
La ‘questione degli inizi’ è di per sé complessa in molti ambiti disciplinari, e le Digi-
tal humanities non fanno eccezione. A giudizio di chi scrive le Digital humanities ebbe-
ro un inizio policentrico e disperso nel corso del tempo: scegliere quale sia l’inizio dipen-
de da che cosa si ritiene più rilevante. Ci furono nel nostro tempo almeno altri due inizi
negli Stati Uniti, indipendenti da quello di Busa. Il primo inizio sono i cosiddetti Sep-
tuagint studies, gli studi intorno alla Bibbia dei Settanta che è traduzione in greco di epoca
ellenistica della Bibbia ebraica. Per la nascita e lo sviluppo del progetto dei Computer assi-
intersezioni 193
22 È dunque benvenuta e importante la ripubblicazione di un corpus di scritti di Busa nel volume One
origin of Digital humanities: fr. Roberto Busa in his own words, editors Julianne Nyhan, Marco Pas-
sarotti. New York: Springer Nature, 2019.
23 Index Thomisticus: Sancti Thomae Aquinatis operum omnium indices et concordantiae in quibus
verborum omnium et singulorum formae et lemmata cum suis frequentiis et contextibus variis modis
referuntur quaeque, auspice Paulo VI Summo Pontifice consociata plurium opera atque electronico
IBM automato usus digessit Robertus Busa. Stuttgart-Bad Cannstatt: Frommann-Holzboog, 1974-1980.
sted tools for Septuagint studies (CATSS)24 nel 1978-1979 all’interno del Computer Center
for the Analysis of Texts (CCAT)25, condiretto da Robert Kraft (Università di Pennsylva-
nia)26 ed Emanuel Tov (Università di Gerusalemme), fu determinante la sede dell’Uni-
versità della Pennsylvania dove nel 1946 era stato creato ENIAC, il primo computer digi-
tale general purpose della storia. Infatti se l’Index Thomisticus era un’iniziativa di ricerca
la cui principale caratteristica innovativa era la mole di dati da acquisire (mentre il tipo
di strumento di studio che si intendeva costruire, la concordanza, era noto da tempo),
i CATSS si caratterizzarono per la varietà e innovatività delle elaborazioni informatiche
da realizzare sui testi: dalla gestione di opere scritte in lingue (greco ed ebraico) che uti-
lizzano caratteri non occidentali, all’analisi morfologica automatica dei testi, alla crea-
zione di un testo parallelo allineato greco-ebraico con gestione delle varianti testuali. Il
progetto vide la collaborazione di studenti, dottorandi, staff dell’Università, e studiosi
esterni; e come detto la collaborazione tra l’Università della Pennsylvania e l’Università
di Gerusalemme. Ampia parte della comunicazione scientifica informale del progetto
si svolse nella mailing list Humanist cioè in un contesto pubblico internazionale.
È il caso di notare che alla base dei progetti tanto di Busa quanto di Tov e Kraft stava la
digitalizzazione dei testi, la produzione di collezioni di testi in formato digitale cioè la crea-
zione di ambienti che, in senso generale, possono essere interpretati come ‘embrionali’
biblioteche digitali. Ora è ben noto che la concezione oggi dominante di biblioteca si strut-
tura sulla compresenza di collezioni e servizi; e nei progetti citati è facile vedere che sono
presenti prioritariamente le collezioni e solo marginalmente, almeno da un punto di vista
quantitativo, i servizi. Qui però si vuole sottolineare che all’origine di alcune esperienze
fondanti delle Digital humanities si trova la creazione di ‘embrionali’ biblioteche digitali.
Questa interpretazione ha due basi: una di tipo contenutistico e una di tipo storico. Sul
piano dei contenuti si può osservare che alle collezioni digitali dell’Index, dei CATSS, del
TLG, si accompagnavano dei servizi. Nel caso di collezioni digitali i servizi possono essere
qualcosa di molto differente da quelli che un bibliotecario in presenza offre ai lettori che
chiedono aiuto: può trattarsi dell’attività di gestione dei mezzi tecnici e integrazione delle
risorse di calcolo e di rete che permettono l’esistenza della collezione e l’accesso ad essa27;
oppure dell’attività di progettazione del contenuto della collezione e la sua manutenzio-
ne e incremento nel corso del tempo28; o – come sostiene Borgman – dove c’è attività di
selezione, raccolta, organizzazione, conservazione e fornitura di accesso all’informazione
nell’interesse di una comunità di utenti, là c’è una biblioteca29. E anche nella definizione
che si trova nei documenti ufficiali dell’Unione europea, «Digital libraries are organised
collections of digital content made available to the public»30 traspare il tema dei servizi
intersezioni194
24 Si veda il report del progetto per il NEH all’indirizzo .
25 Cfr. .
26 All’URL Robert Kraft scrive: «around
1970 I was 36 years old […]. Before that I knew, somewhat vaguely, about the use of computers in Father
Busa’s Aquinas project»: vaguely, perché la comunicazione sul progetto dell’Index era limitata.
27 Gary Cleveland, Digital libraries: definitions, issues and challenges, IFLA Universal dataflow and
telecommunications core programme, Occasional papers 8, 1998, p. 5.
28 Carl Lagoze; David Fielding, Defining collections in distributed digital libraries, «D-Lib magazine»,
November 1998, .
29 Christine L. Borgman, What are digital libraries? Competing visions, «Information processing and
management», 35 (1999), n. 3, p. 231.
associati alla collezione: collezioni organizzate, e messe a disposizione del pubblico, impli-
cano un’intenzionalità che opera in modo costante con uno scopo preciso rispetto a un
pubblico di riferimento. Non sarà casuale che quando poi si arriva ad anni più vicini a oggi
i criteri si facciano più stringenti e si consolidi la concezione in base alla quale ‘se oltre ai
testi non ci sono i servizi, allora non si parli di biblioteca digitale’31 perché la varietà delle
origini si è progressivamente incanalata in una serie di forme consolidate. Borgman segna-
la altresì l’esistenza di un altro asse della questione:
In general, researchers view digital libraries as content collected on behalf of
user communities, while practicing librarians view digital libraries as institu-
tions or services. Tensions exist between these communities over the scope and
concept of the term ‘library’
32
.
da cui si può cogliere il significato discriminante di uno specifico servizio, quello di refe-
rence: meno rilevante nelle biblioteche di ricerca e più rilevante in quelle frequentate dal
pubblico generico. In effetti, nella prospettiva specifica da cui qui si è partiti, i progetti
menzionati non avevano una finalità di attività con il pubblico generico e quindi l’atti-
vità di reference effettuata era riferita esclusivamente a comunità interpretative speciali-
stiche. Questi corpora non nacquero a partire da, o con il coinvolgimento di, biblioteca-
ri. Nacquero invece ad opera degli studiosi, in risposta a loro specifiche necessità di ricerca,
e questa tendenza almeno in Italia non è cambiata se si considerano per esempio le biblio-
teche digitali di ambito latino classico come ALIM, digilibLT, Musisque Deoque.
In ogni caso i CATSS non sono pressoché mai menzionati, nemmeno dagli studiosi
nordamericani, quando si parla di inizi delle Digital humanities (il fatto che da un punto
di vista puramente cronologico il loro inizio si collochi circa 30 anni dopo quello del-
l’Index Thomisticus non è rilevante perché il loro inizio fu indipendente). È quindi un
destino complesso, intricato, quello di questi progetti antesignani che o sono menzio-
nati in modo stereotipato (Index Thomisticus) o non sono conosciuti nemmeno all’in-
terno del loro proprio contesto linguistico-culturale (i CATSS). Il progetto dei CATSS vide
fin dall’inizio la collaborazione di David Packard, creatore e inventore di Ibycus (com-
puter specificamente destinato alla visualizzazione e studio di testi greci in quanto era
dotato di un sistema di visualizzazione avanzatissimo per i tempi) nel quale si utilizzava
il testo greco della Bibbia dei Settanta proveniente dal Thesaurus linguae Graecae (TLG).
E proprio il TLG che prese l’avvio nel 1972 costituisce una seconda linea di svi-
luppo autonomo e originario delle Digital humanities in ambito nordamericano33. Il
intersezioni 195
30 Unione europea, Communication from the Commission of 30 September 2005 to the European Par-
liament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions
– i2010: digital libraries, «Official journal of the European Union», Communication, 49, febbraio 2008,
.
31 Si vedano a titolo di esempio Howard Besser, The next stage: moving from isolated digital collec-
tions to interoperable digital libraries, «First Monday», 7 (2002), n. 6; Anna Maria Tammaro, Che cos’è
una biblioteca digitale?, «DigItalia», 1 (2005), p. 16, 19.
32 C.L. Borgman, What are digital libraries? Competing visions cit., p. 227.
33 Degli stessi anni è anche il ‘database testuale’ noto come Packard Humanities Institute (PHI) CD-
ROM, che sulla falsariga del TLG e adottandone i formati di codifica dei testi offriva una raccolta di
molti testi latini dalle origini all’epoca classica. Per quanto utile e significativo per gli studi classici
digitali non ha mai avuto la forza propulsiva del TLG.
progetto, diretto da Theodore Brunner e basato inizialmente all’Università di Califor-
nia a Irvine, mirava alla creazione di una biblioteca digitale di tutta la letteratura
greca, dall’epoca arcaica a quella bizantina. L’espressione usata all’epoca era textual
database, database testuale, e in effetti a prima vista il TLG era costituito da una pura
e semplice raccolta di file corrispondenti alle opere dei vari autori. Ma a partire dal
1990 al database testuale si accompagnava un densissimo volume a stampa, il TLG:
canon of Greek authors and works34 in cui per ogni autore e opera del TLG erano for-
nite informazioni come la datazione, i riferimenti bibliografici dell’edizione a stam-
pa che era stata digitalizzata, il nome del file dell’opera nella raccolta, sicché il TLG:
canon costituiva una sorta di catalogo della biblioteca la quale si caratterizzava per
la natura ibrida, mista, digitale/fisica. La creazione del TLG, tutt’ora esistente e ope-
rante, diede il via allo sviluppo di una serie di strumenti software specifici per la let-
tura e uso del TLG: CD-ROM – per lo più programmi per le due piattaforme Mac e
Windows, i cui esemplari più recenti sono di pochi anni fa (Diogenes e Musaios),
senza dimenticare il già menzionato Ibycus35 che era una workstation dedicata. Men-
zioniamo questi aspetti, a prima vista strettamente tecnici e secondari, perché que-
sta biblioteca digitale benché ininterrottamente operante dal 1972 non viene mai
menzionata quando si discute di come sono iniziate le Digital humanities, benché
essa sia stata una forza di primaria importanza per il concetto e per la diffusione della
pratica di studi filologici, letterari, con l’uso di strumenti informatici e benché le
persone coinvolte a vario titolo nel progetto siano state e siano tutt’ora parte attiva
della comunità internazionale degli studiosi di Digital humanities. Si potrebbe soste-
nere che i CATSS e il TLG non sono innovativi quanto l’Index perché nel contesto
statunitense l’uso del computer nello studio dei testi era già noto e praticato (basti
ricordare il manuale di John Abercrombie del 1983)36, ed è certamente vero. Ma essi
portano l’uso del computer nello studio dei testi a un livello incomparabilmente più
alto: i CATSS perché coordinano una serie di competenze disparate per risolvere il
problema difficilissimo per quel tempo di tentare un lavoro filologico critico su testi
che usano scritture ingestibili all’interno del set dei 128 caratteri ASCII allora domi-
nante; e il TLG perché realizzò una risorsa tutt’ora fondamentale per chi studia i testi
letterari greci fino al tardo periodo bizantino.
Abbiamo dunque sin qui visto che negli ultimi settanta anni circa gli inizi delle
Digital humanities si possono collocare in almeno 3 contesti differenti e fra loro indi-
pendenti: l’Index Thomisticus di Busa, i Computer assisted tools for Septuagint studies
di Emanuel Tov e Robert Kraft, e il Thesaurus linguae Graecae di Theodore Brunner.
Differenti per collocazione geografica e per capacità di ‘fare scuola’ ma comunque
tutti in varie forme centrati sulla creazione di raccolte di testi digitalizzati che (pur
con precisazioni e limitazioni più serie per l’Index Thomisticus in cui i testi digitaliz-
intersezioni196
34 Luci Berkowitz; Karl A. Squitier, Thesaurus linguae Graecae: canon of Greek authors and works,
with technical assistance from William A. Johnson. New York: Oxford University Press, 1990.
35 Dalla fine degli anni Novanta Ibycus non venne più prodotto perché in tempi di computer con inter-
faccia a carattere e quindi limitati alla visualizzazione dei caratteri occidentali una sua caratteristica
fondamentale era che permetteva di visualizzare correttamente i caratteri greci. Con l’avvento di Win-
dows e con la diffusione dei Mac la visualizzazione dei caratteri non occidentali si diffuse e rese obso-
leto il costoso Ibycus.
36 John R. Abercrombie, Computer programs for literary analysis. Philadelphia: University of Penn-
sylvania Press, 1984.
zati erano a uso interno, meno per i testi su cui operavano i Computer assisted tools
for Septuagint studies, che erano disponibili per l’utilizzo da parte degli studiosi capa-
ci di padroneggiare i testi e gli strumenti di studio) soprattutto con il TLG prefigu-
ravano che cosa sarebbero poi state le biblioteche digitali – perché ‘germinalmen-
te’, ‘embrionalmente’, intorno ai testi si coagulavano dei servizi: il Canone che
fungeva da catalogo bibliografico delle opere raccolte nel TLG, e la serie dei pro-
grammi da SNS Greek a Diogenes che permettevano di operare ricerche testuali all’in-
terno del TLG. Ma la riflessione sulle origini può andare oltre, se si considera che in
tutti i casi questi progetti di ricerca configuravano una lettura ‘destrutturata’ dei
testi37 in cui si cercano, si analizzano, si contano, si studiano, singole locuzioni o
parole o sequenze di caratteri in quanto espressione di fenomeni linguistici, fonici,
fonetici, grammaticali, sintattici, che lo studioso reputa utili per lo studio e la com-
prensione del testo che li contiene. Tutto ciò è più facile da operare praticamente se
il testo oggetto di studio è in formato digitale e si trova all’interno di un ambiente
finalizzato, dotato di strumenti specifici; ma nulla impedisce che tutto ciò possa esse-
re concepito ed eseguito anche in assenza di un ambiente digitale. E quindi risalen-
do indietro nel tempo si possono individuare alcuni precursori di questo tipo di stu-
dio dei testi.
Wincenty Lutoslawski, polacco, sul finire dell’Ottocento indagò sulla cronolo-
gia dei dialoghi di Platone e l’autenticità di alcune delle sue lettere, nel saggio The
origin and growth of Plato’s logic; with an account of Plato’s style and of the chronology of
his writings38 e nell’articolo Principes de stylométrie appliqués a la chronologie des œuvres
de Platon39. Egli riteneva che lo stile di Platone si potesse studiare misurando (con-
tando) una serie di caratteristiche sintattiche40.
Con una più netta impronta matematico-statistica nei medesimi anni di Luto-
slawski operò negli Stati Uniti Thomas Corwin Mendhall, un fisico, che dapprima
in The characteristic curves of composition: word lengths in the writings of Dickens, Thacke-
ray and others studiò come si potesse individuare nella frequenza delle parole di lun-
intersezioni 197
37 La ‘lettura destrutturata dei testi’ oltre che una descrizione del modus operandi degli studi testuali
digitali è anche uno dei contenuti principali del rifiuto delle Digital humanities da parte degli studiosi di
discipline umanistiche: il testo dell’opera viene smontato e studiato anche in assenza di quella lettura
– e potremmo dire rimuginazione – che tradizionalmente caratterizzano lo studio dei testi a stampa.
38 Wincenty Lutoslawski, The origin and growth of Plato’s logic; with an account of Plato’s style and
of the chronology of his writings. London, New York and Bombay: Longmans, Green, and co., 1897,
.
39 Id., Principes de stylométrie appliqués à la chronologie des œuvres de Platon, «Revue des études
grecques», 11 (1898), n. 41, p. 61-81, DOI: 10/gfj94h.
40 A titolo di esempio si possono menzionare questi marcatori di stile (menzionati in Anthony Kenny,
The computation of style: an introduction to statistics for students of literature and humanities. Oxford
[Oxfordshire], New York: Pergamon Press, 1982):
risposte denotanti assenso soggettivo meno di 1 volta su 60 risposte;
aggettivi di grado superlativo in risposte affermative con frequenze superiori alla meta� degli aggetti-
vi di grado positivo, ma non prevalenti sui positivi;
proposizioni interrogative con ara costituenti tra il 15 e il 24% di tutte le interrogative;
preposizione perì collocata dopo la parola a cui si riferisce, costituente più del 20% di tutte le occor-
renze di perì.
ghezza data un indicatore dello stile di un autore (la cosiddetta ‘curva caratteristi-
ca’41) e che successivamente in A mechanical solution of a literary problem42 utilizzan-
do tale indicatore studiò l’attribuzione delle opere di Shakespeare confrontandole
con le opere di Marlowe e Bacone.
Ancora qualche anno prima, nel 1847, Viktor Jakovlevič Bunjakovskij, eminen-
te matematico russo, aveva pubblicato un articolo intitolato On the possibility to apply
determining measures of confidence to the results of some observing sciences, particularly
statistics43 in cui prospettava «the application of probability analysis, to which obviou-
sly no-one has ever before drawn the attention [to] grammatical and etymological
studies of a language, as well as comparative philology»44 (non risulta che Luto-
slawski conoscesse questo articolo di Bunjakovskij quando intraprese i suoi studi di
statistica linguistica sulle opere di Platone).
Riassumendo, abbiamo visto che c’è un inizio policentrico delle Digital humani-
ties negli anni tra questo secolo e gli ultimi del precedente in cui emerge in eviden-
za la connessione dei progetti di ricerca con la creazione di risorse di base che oggi
verrebbero chiamate biblioteche digitali. Ma gli intenti e gli approcci metodologici
di chi oggi studia i testi nell’ambito delle Digital humanities hanno forti somiglian-
ze con l’opera di studiosi di attribuzione che operarono nell’Ottocento, in entram-
bi i casi v’è al centro dell’attenzione una lettura destrutturata dei testi che sono ogget-
to di studio. Ma resta un ultimo passo, vertiginoso, da compiere verso il passato
profondo. Lo studio delle opere sulla base del confronto delle parole presenti nel
testo nasce nel nostro mondo culturale nel Medioevo, a Parigi, all’abbazia domeni-
cana di San Giacomo nel 123045. Lì ad opera di Hugues de Saint-Cher venne conce-
pita e realizzata la prima concordanza della Vulgata: di ogni parola del testo veni-
vano elencati i passi che la contengono. Il concetto centrale della concordanza è
comprendere e studiare il significato della parola in base all’insieme dei passi che
concordano nell’utilizzo di tale parola. In Figura 5 si può osservare il lemma Abba
pater: sulla sinistra ci sono le citazioni, sulla destra i corrispondenti passi concisi:
Mc. xiiii.d omnia possibilia sunt tibi
46
Ro.viii.c clamantes Abba Pater
Gal.iiii.d clamantes Abba Pater
intersezioni198
41 Thomas Corwin Mendenhall, The characteristic curves of composition: word lengths in the writ-
ings of Dickens, Thackeray and others. New York: Science Co., 1887.
42 Id., A mechanical solution of a literary problem, «The popular science monthly», 60 (1901), n. 8, p. 97-105.
43 Viktor Jakovlevi� Bunjakovskij, On the possibility to apply determining measures of confidence to
the results of some observing sciences, particularly statistics, «Sovremennik», 3 (1847), II.
44 La traduzione inglese dell’originale russo è in Peter Grzybek, History of quantitative linguistics - I.
Viktor Jakovlevi� Bunjakovskij, «Glottometrics», 6 (2003), p. 103-106.
45 Martin Morard, Les concordances bibliques d’Hugues de St-Cher – Sacra pagina, «Sacra pagina:
gloses et commentaires de la Bible latine au Moyen Âge», 15 ottobre 2018, ; Janos Bartko, Un instrument de travail dominicain pour les prédicateurs du XIIIe siècle:
Les Sermones de evangeliis dominicalibus de Hugues de Saint-Cher (†1263): edition et étude. Lyon: Lyon
2 - Lumière, 2003, .
46 La stranezza del passo che apparentemente non contiene il lemma dipende dal fatto che la frase
a cui si fa riferimento recita «et dixit Abba Pater omnia possibilia sunt tibi».
Figura 5 – Voce di concordanza «Abba pater» nel ms. 28, f. 001,
Biblioteca municipale di Saint-Omer
47
Non si ritrova qui la divisione oggi abituale dei capitoli in versetti perché essa fu con-
cepita e operata per la prima volta nel 1545 ad opera di R. Stefanus; Ugo di Saint-Cher
invece suddivideva ogni capitolo in 7 parti uguali identificate dalle lettere da a a g.
Anche quando si utilizza una concordanza per studiare un testo si realizza quella let-
tura destrutturata del testo (o ri-strutturata secondo l’intenzione del lettore che sce-
glie la parola di suo interesse) perché dal testo ‘principale’ si estrae (per mezzo dell’a-
nalisi e ricerca delle forme) un testo ‘secondario’, costituito dall’insieme dei passi che
concordano nell’uso di una determinata parola, e questo testo secondario diventa
oggetto della lettura. Uno «studiare il testo con il testo» che concepisce il testo come
un universo di cui occorre conoscere le regole interne per poter arrivare a compren-
derne il significato. La concordanza, che è lo strumento per operare tutto ciò, è un
tipo di pubblicazione molto particolare perché oltre a richiedere una mole imponente
di lavoro preparatorio crea un testo di secondo livello che presuppone l’esistenza di
biblioteche in cui i testi di riferimento di primo livello sono catalogati e accessibili.
Questo approccio al testo anche chiamato analisi testuale – testimoniato in
forma seminale dalla concordanza e poi sviluppatosi in varie forme nel corso del
tempo fino a caratterizzare un nucleo duro di informatica umanistica – si caratte-
rizza per essere essenzialmente costituito da un’attività di ricerca di informazione
all’interno dei testi, ricerca che prende le forme più diverse e varie a seconda che
riguardi elementi testuali in senso stretto (in genere parole o sequenze di caratteri)
o metatestuali (per esempio caratteristiche grammaticali o sintattiche che o ven-
gono inferite dal testo stesso o sono preventivamente inserite e descritte in modo
formale nel testo per poi poterle cercare e reperire); gli esiti desiderati non sono solo
i passi che contengono i fenomeni cercati ma anche dati numerici sulle frequenze,
da poter sottoporre in un secondo momento ad analisi statistiche; e le ricerche si
possono effettuare su dati testuali conservati localmente oppure su dati testuali
remoti per mezzo di strumenti di ricerca online48. Ma proprio la ricerca di infor-
mazioni (intesa in senso estensivo) da vari studi viene riconosciuta come un ele-
mento costitutivo del nucleo specifico della Library and information science49. Secon-
do la classificazione degli argomenti di Library and information science nelle riviste
intersezioni 199
47 .
48 È il caso, ad esempio, di WebCorp ().
49 Ne dà conto Maurizio Vivarelli, Dai frattali alle reti: un punto di vista olistico per la lettura. In: La
biblioteca che cresce: contenuti e servizi tra frammentazione e integrazione. Milano: Editrice bibli-
ografica, 2019, p. 39-50.
scientifiche del settore elaborata da Ja�rvelin e Vakkari nel 199350 è costitutivo il tema
«information retrieval»; secondo l’indagine di Borup Larsen del 200551 in tutti i syl-
labi dei corsi di Library and information science da lei esaminati è presente il core
subject «information seeking and information retrieval»; nel 2017 Figuerola, Garci�a
Marco e Pinto individuano con il topic modelling, i temi ricorrenti delle pubblica-
zioni scientifiche indicizzate nei Library and information science abstracts 1978-2014
e tra questi compaiono advanced statistics application; automatic information proces-
sing; online search services52. Siamo quindi risaliti, in questa indagine sugli inizi delle
Digital humanities, dai nostri anni fino al Medioevo sempre seguendo il filo con-
duttore di metodi di studio dei testi conservati nelle biblioteche – biblioteche crea-
te appositamente per la ricerca che si intende condurre, come si è visto per i pro-
getti più recenti, o biblioteche preesistenti. Gli strumenti e le entità oggetto dell’analisi
possono cambiare ma i concetti permangono a indicare che si è sempre all’interno
di un medesimo campo di studi ‘di natura eminentemente testuale’. Si tratta di una
conclusione apparentemente ovvia, sulla base di quanto fin qui esposto: ma ha una
serie di implicazioni non banali per il seguito del discorso. E lo strumento di lavo-
ro all’interno di questo campo, cioè l’analisi testuale, che è analisi dell’informa-
zione veicolata dal testo, è un tema chiave che concorre a definire l’identità della
Library and information science.
Sulla questione degli inizi delle Digital humanities visti nel progetto di Busa per
l’Index Thomisticus più voci si sono espresse negli ultimi anni. Steven Jones53 ha
pubblicato un’ampia ricostruzione storica del progetto, proprio allo scopo di por-
tarlo fuori dalla semplificatoria vulgata corrente per mostrarne la complessità e
quindi confermarne per via di approfondita analisi il significato di inizio delle Digi-
tal humanities. Fabio Ciotti54 ha recentemente pubblicato un articolo in cui pur
ricordando gli inizi delle Digital humanities con Busa sottolinea il ruolo e il valore
dell’impronta della scuola romana (Orlandi in primis e poi Gigliozzi e Mordenti)
all’interno della ‘via italiana’ documentata a partire dall’uscita nel 1962 del già ricor-
dato Almanacco letterario pubblicato da Bompiani e dedicato alle Applicazioni dei
calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura55. Il tema delle origini viene
trattato anche da Edward Vanhoutte in un capitolo del volume Defining digital
intersezioni200
50 Kalervo Ja�rvelin; Pertti Vakkari, The evolution of library and information science 1965-1985: a con-
tent analysis of journal articles, «Information processing & management», 29 (1993), p. 129-144.
51 Jeannie Borup Larsen, Survey of library & information science schools in Europe. In: European cur-
riculum reflections on library and information science education. Copenhagen: The Royal School of
Library and Information Science, 2005, p. 232-240.
52 Nell’articolo di Carlos G. Figuerola; Francisco Javier García Marco; María Pinto, Mapping the evo-
lution of Library and information science (1978–2014) using topic modeling on LISA, «Scientometrics»,
112 (2017), n. 3, p. 1507–1535, DOI: 10.1007/s11192-017-2432-9, tra i temi caratterizzanti dell’ambito
LIS, studiato con tecniche di topic modelling, emergono advanced statistics applications, automatic
information processing, online search services.
53 Steven Jones, Roberto Busa, S.J., and the emergence of humanities computing: the priest and the
punched cards. London: Routledge, 2016, DOI: 10.4324/9781315643618.
54 Fabio Ciotti, From Informatica umanistica to digital humanities and return: a conceptual history of
Italian DH, «Testo e senso», 19 (2018), p. 1-20, .
55 Almanacco letterario Bompiani 1962 cit.
humanities56 principalmente mostrando con riferimento a Busa e ad altri studiosi
e progetti la grande varietà delle forme degli studi di Digital humanities già nei primi
anni di sviluppo del settore. In modo simile a Vanhoutte procede anche Julianne
Nyhan nell’introduzione al volume Computation and the humanities: towards an oral
history of digital humanities57.
Per la prospettiva sulle origini delle Digital humanities che abbiamo qui sopra deli-
neato in modo conciso sono determinanti da un lato il ruolo centrale per le biblio-
teche (biblioteche digitali ante litteram), dall’altro l’attenzione portata più sui meto-
di di studio che sugli specifici oggetti e prodotti della ricerca, il che permette di
ampliare di molto la dimensione storica della riflessione; e soprattutto di leggere
nella formazione e sviluppo delle Digital humanities un’espressione coerente (ben-
ché non prioritaria o dominante) della cultura del libro.
Il ‘campo esteso’ delle Digital humanities
Nelle righe precedenti è comparso in più punti il problema della metodologia: quali
entità si studiano? Con quali strumenti? Come si valutano i dati che si ottengono? Pro-
prio il riconoscimento della rilevanza di questi aspetti metodologici permette di
(ri)costruire un percorso verso le origini che in modo non pretestuoso porta fino al
Medioevo. Ma è usuale concepire le Digital humanities – come si è visto in varie defini-
zioni riportate sopra – focalizzando l’attenzione sull’applicazione di tecnologie del-
l’informazione allo studio di contenuti provenienti dalle scienze umane, lasciando in
secondo piano la questione metodologica. Anche per effetto di questo modo di con-
cepire la specificità delle Digital humanities, (si) è diffusa una concezione pan-inclusi-
va di Digital humanities per lo più espressa con le parole big tent, che non sono entrate
nel lessico italiano delle Digital humanities, a differenza di quanto è accaduto per molte
altre espressioni angloamericane del mondo dell’informatica e della tecnologia del-
l’informazione. L’espressione big tent nacque e si diffuse in ambito americano/cana-
dese intorno agli anni Duemiladieci, e il convegno internazionale DH201158 ebbe per
tema proprio “Big tent digital humanities” a dire che il concetto era già sufficiente-
mente noto e diffuso benché in articoli scientifici o saggi immediatamente preceden-
ti non lo si ritrovi, a indicare probabilmente una circolazione colloquiale o un uso non
formalizzato (meno note ma di segno simile sono le espressioni expanded field e trading
zone). La presentazione del convegno specificava in questo modo il concetto di big tent:
With the Big Tent theme in mind, we especially invite submissions from Latin
American scholars, scholars in the digital arts and music, in spatial history, and
in the public humanities
59
.
intersezioni 201
56 Edward Vanhoutte, The gates of hell: history and definition of digital | humanities | computing. In:
Defining digital humanities», a cura di Melissa Terras, Julianne Nyhan, Edward Vanhoutte. Farnham:
Ashgate, 2013, p. 129-156.
57 Julianne Nyhan; Andrew Flinn, Computation and the humanities: towards an oral history of digital human-
ities. Cham: Springer International Publishing, 2016, .
L’edizione digitale in accesso aperto del volume, distribuita da Springer Open, non contiene numerazione
di pagine.
58 Come accade per molti ambiti di studio che si riconoscono in un’associazione di livello mondiale, ormai
da tempo nell’ambito delle Digital humanities si svolge ogni anno un convegno denominato “DH[anno]”. Il
convegno “DH2011” si inseriva in questo percorso temporale e non costituiva dunque un evento isolato.
59 .
Si vede qui comparire un aspetto sistemico di multiculturalismo (l’invito specifica-
mente rivolto agli studiosi sudamericani) insieme ad aspetti contenutistici. I temi
delle Digital humanities specificamente invitati al convegno erano pertanto così
descritti nella call for papers:
data mining, information design and modelling, software studies, and human-
ities research enabled through the digital medium;
computer-based research and computer applications in literary, linguistic, cul-
tural and historical studies, including electronic literature, public humanities,
and interdisciplinary aspects of modern scholarship. Some examples might be
text analysis, corpora, corpus linguistics, language processing, language learn-
ing, and endangered languages;
the digital arts, architecture, music, film, theater, new media, and related areas;
the creation and curation of humanities digital resources;
the role of digital humanities in academic curricula.
I temi che davano più specificamente corpo al concetto di big tent erano arti digita-
li, architettura, musica, film, teatro, nuovi media e aree collegate, creazione e con-
servazione di risorse digitali, insieme all’apertura verso gli studiosi sudamericani e
quindi verso quello che viene chiamato «the global South».
Per dare sostanza all’analisi del tema della big tent si può misurare per quanto pos-
sibile su base documentale la presenza del tema (e delle altre due metafore abbastanza
frequenti expanded field e trading zone) nelle pubblicazioni scientifiche. In Figura 6 sono
esposti gli esiti quantitativi suddivisi per anno, della ricerca («big tent» OR «expanded
field» OR «trading zone») AND «digital humanities» effettuata con Google scholar.
Figura 6 – Esiti della ricerca («big tent» OR «expanded field» OR «trading zone»)
«digital humanities» in Google scholar
Come si può osservare, la presenza del tema della big tent nelle pubblicazioni di Digi-
tal humanities in lingua inglese si amplia proprio a partire dal 2011, anno del conve-
gno “DH2011” che aveva per tema “Big tent digital humanities”, con un andamen-
to di crescita netta e progressiva60. Le frequenze assolute di queste metafore devono
però essere rapportate al numero complessivo di pubblicazioni sul tema Digital huma-
nities come si può vedere in Figura 7.
intersezioni202
60 L’apparente calo di frequenze nel 2018 è influenzato dal fatto che la ricerca è stata effettuata a ini-
zio dicembre 2018.
Figura 7 – Numero di esiti delle ricerche «digital humanities»,
e («big tent» OR «expanded field» OR «trading zone»)
AND «digital humanities» in Google Scholar: in rapporto alle frequenze di
«digital humanities» quelle delle altre espressioni sono quantitativamente irrilevanti
Come si può osservare il discorso sulla big tent occupa uno spazio molto piccolo nelle
pubblicazioni su temi di Digital humanities61 a indicare in modo chiaro che le Digi-
tal humanities sono un ambito di ricerca fortemente centrato sulla ricerca e il dibat-
tito interno autoriflessivo sul significato della disciplina rimane contenuto. Potreb-
be essere interessante verificare in modo analogo a quanto fatto qui sopra per le
Digital humanities se anche in altri ambiti disciplinari esiste un analogo metadibat-
tito, cioè non sulla disciplina in sé ma sulla sua ragion d’essere.
Peraltro in ambito nordamericano la call for papers del convegno “DH2011” che aveva
per tema “Big tent digital humanities” fu giudicata non abbastanza inclusiva (cioè la tenda
non sarebbe stata abbastanza grande, o almeno non così grande come la si dichiarava):
The call as a whole is definitely more inclusive than the 2009 CFP
62
, which had
a more pronounced instrumental and textual focus; but, even so, there can be
no doubt that there is a particular scholarly tradition underlying the call. This
may not be surprising given the history of the conference series, but the cur-
rent state of the field and the theme would seem to call for a more clearly inclu-
sive stance. Again, it is important to consider inside and outside perspectives.
It may be that the call under discussion seems inclusive to the organizers of the
conference, whereas it is seen as exclusionary by “outsiders” or newcomers to
the field. For instance, most of the aspects listed could be said to represent tool-
oriented and text-based research
63
.
In sintesi: ciò che dall’interno della tenda poteva apparire come una proposta di temi
molto inclusiva, veniva invece recepito all’esterno come escludente anche perché i temi
del convegno ‘rappresentavano ancora una ricerca basata sui testi’, a indicare che secon-
do Svensson chiedevano di ‘entrare nella big tent delle Digital humanities’ persone i cui
intersezioni 203
61 Anche in questo caso il calo di frequenze nel 2018 è connesso al fatto che la ricerca è stata fatta in
dicembre 2018.
62 Si intende la call for papers del convegno “DH2009”.
63 Patrik Svensson, Beyond the big tent. In: Debates in the digital humanities, edited by Matthew K.
Gold. Minneapolis: University of Minnesota Press, 2012, p. 36-49.
studi non erano basati sul testo64. Il tema della big tent si caratterizza poi progressivamente
negli anni successivi per aspetti e contenuti ideologico-politici di cui l’apertura verso gli
studiosi sudamericani della call del convegno “DH2011” era un primo indicatore, come
appare bene da questa lista di argomenti focalizzati sulla «cultural, political and ultima-
tely epistemological diversity» e che costituiscono la call for papers65 per chi volesse con-
tribuire all’edizione 2016 del già citato volume Debates in the digital humanities66:
DH has been described through various metaphors – “big tent”, “trading zone”,
“expanded field”, etc. – lacking perhaps one further step: the idea of digital
pluralism linked to new geographical and geopolitical dimension. Our aim in
this project is therefore to build a different representation of DH based on cul-
tural, political and ultimately epistemological diversity.
DH and the epistemologies of the South
DH and theory from the South
DH and Southern critical perspectives
DH and cultural criticism
Critique of DH
Postcolonial DH
Decolonial computing
Alternative histories of DH
Geopolitics of DH
Digital hegemonies
DH and alternative methodologies
Geopolitics of code
Technical challenges of DH with non-anglophone and non-Latin material
DH and alternative technologies
Open Humanities
DH and public policy
DH and local communities
DH and intercultural problems
DH and multilingualism
DH and indigenous knowledge orders
DH and digital divides
DH and political debates
DH and social change in the Global South
DH and citizen-driven innovation from the South
DH and social complexity
DH and surveillance studies
DH and big data from the South
intersezioni204
64 A dire quanto questa prospettiva si sia affermata in ambito anglofono si può osservare che la descri-
zione del contenuto proposta dall’editore Routledge per il suo recente Routledge companion to media
studies and digital humanities (edited by Jentery Sayers. New York, London: Routledge, 2018,
) è «Humanities, cultural studies, media & film studies»: si
crea un’identificazione (un cortocircuito) tra le Digital humanities del titolo e i cultural e media studies.
65 Reperibile qui: João Fernandes, Global debates in the digital humanities, 6 settembre 2017,
.
66 Si trova qui: .
Che un settore di ricerca umanistica come sono le DH si presenti fortemente
caratterizzato da una varietà di temi dalle connotazioni o caratteristiche chia-
ramente politiche è cosa nuova. Fuori delle Digital humanities probabilmente
non si penserebbe a una «filologia italiana e problemi interculturali», o a una
«letteratura bizantina e multilinguismo» ma questo è ciò che caratterizza le Digi-
tal humanities principalmente ma non esclusivamente nel contesto culturale
nord e sud-americano. Tra l’altro il volume in questione ha tre curatori non ame-
ricani (Domenico Fiormonte, Italia; Paola Ricaurte, Messico; Sukanta Chaudhu-
ri, India) a dire una ancora più complessa situazione: quella per cui le DH sono
attraversate sottotraccia da una polemica anticolonialista, anticapitalista, antioc-
cidentale, di cui è parte non secondaria la lotta contro il predominio della lin-
gua inglese nella comunicazione e contro la coloritura anglo e nord-americana
di molti aspetti della vita della comunità degli studiosi delle Digital humanities.
Si tratta di temi indiscutibilmente importanti e fondati nella realtà delle Digi-
tal humanities di oggi ma l’intensità con cui vengono promossi e sostenuti, e con
cui si cerca di imporli come agenda di tutto il mondo delle Digital humanities,
sembra negare i principi di multiculturalismo e di valorizzazione della diversità
che si vogliono affermare.
Le Digital humanities in Italia
In Italia il concetto di big tent delle Digital humanities non si è diffuso né afferma-
to benché se ne sia ben consapevoli. Le ragioni (possibili, perché non v’è contro-
prova) sono probabilmente di tipo storico cioè il fatto che l’informatica umani-
stica prima, e le Digital humanities poi, si sono strutturate in Italia intorno allo
studio dei testi (o, in modo più estensivo, a studi testuali cioè studi per i quali i testi
sono una parte rilevante): il già menzionato progetto dell’Index Thomisticus, la
presenza degli studi classici fin dagli inizi della costituzione del campo, l’influen-
za degli scritti e dell’insegnamento di Orlandi che sottolineano la valenza meto-
dologica e perciò scientifica delle Digital humanities (che non a caso Orlandi chia-
ma informatica umanistica), le riflessioni di impronta filosofica di Buzzetti sulle
caratteristiche della testualità e delle operazioni di studio in tale contesto67, l’esi-
stenza e l’attività di un Istituto di linguistica computazionale del CNR a Pisa la cui
storia si può tracciare a partire dal 196968. Coerentemente con questa impronta
complessiva, una parte importante del dibattito interno alle Digital humanities in
Italia riguarda la strutturazione disciplinare formale delle Digital humanities all’in-
terno delle aree concorsuali 10 e 11, che sono quelle che comprendono le discipli-
ne umanistiche in senso ampio. Ma fino ad ora le Digital humanities non sono
entrate nei settori disciplinari dell’università italiana: né con una disciplina pro-
pria né come contenuto specifico all’interno delle declaratorie dei vari settori con-
intersezioni 205
67 Dino Buzzetti, Digital representation and the text model, «New literary history», 33 (2002), n. 1, p.
61-88, DOI: 10.1353/nlh.2002.0003; Jerome Mcgann; Dino Buzzetti, Critical editing in a digital horizon.
In: Electronic textual editing. New York: The Modern Language Association of America, 2006, p. 51-71;
Dino Buzzetti, Digital editions and text processing. In: Text editing, print and the digital world, a cura
di Marilyn Deegan, Kathryn Sutherland. Farnham: Ashgate, 2009, p. 45-61, .
68 Antonio Zampolli, Introduction to the special section on machine translation, «Literary and lin-
guistic computing», 4 (1989), n. 3, p. 182-184, DOI: 10.1093/llc/4.3.182.
corsuali69. Esse di conseguenza vengono praticate e sviluppate per così dire ‘in
incognito’ in un’ampia varietà di ambiti: biblioteconomico, ingegneristico, infor-
matico, giuridico, archeologico, storico-artistico, linguistico, musicale/musico-
logico, didattico ecc. La varietà degli ambiti disciplinari non implica però una big
tent delle Digital humanities italiane, bensì la caratteristica distintiva di un approc-
cio multidisciplinare al testo e alle sue ‘ramificazioni’: proprio quell’essere cen-
trate sul testo che Svensson e il contesto nordamericano reputano essere segno di
chiusura (cfr. sopra dove egli afferma che una netta impronta di «text-based resear-
ch» risulta «exclusionary for “outsiders” or newcomers to the field»), costituisce
in Italia il punto d’incontro di discipline diversissime tra loro. Le Digital humani-
ties italiane mostrano in atto che nel mondo digitale la testualità e il testo sono il
tessuto connettivo di un’amplissima varietà di discipline, anche di quelle che si
potrebbero reputare lontane come ingegneria e informatica.
A definire questa caratteristica delle Digital humanities italiane ha certamente
contribuito il processo inclusivo con cui si formò AIUCD, l’Associazione italiana di
Digital humanities. Essa nacque in ottobre 2009 da un’iniziativa di Anna Maria Tam-
maro e della fondazione Rinascimento Digitale: coloro che in Italia operavano nel-
l’ambito dell’informatica umanistica furono invitati ad alcune assemblee fondati-
ve, al termine delle quali gli studiosi che si ritenevano interessati alla costituzione
di un’associazione di informatica umanistica diedero vita all’associazione. L’ele-
mento chiave fu dunque il fatto che l’associazione ebbe un processo decisionale e
un nucleo fondatore non disciplinarmente caratterizzati, ma costituiti da studiosi
che appartenevano (e appartengono) nativamente e formalmente a discipline e
ambiti molto vari e allo stesso tempo condividono l’interesse per un medesimo oriz-
zonte di studio cioè quello che abbiamo poco sopra chiamato il testo e le sue ‘rami-
ficazioni’: il contenuto delle biblioteche e degli archivi, cioè testi letterari, fonti sto-
riche, fonti giuridiche, e l’annotazione formale delle fonti testuali e delle fonti visive
anche per mezzo di ontologie formali. Tutto ciò fa sì che AIUCD costituisca un uni-
cum nel panorama delle associazioni di Digital humanities esistenti nel mondo in
quanto il ‘campo esteso’ delle Digital humanities vi si realizza molto più per la varietà
disciplinare delle appartenenze dei soci (fanno parte di AIUCD ingegneri, filosofi,
linguisti, letterati, storici, biblioteconomi, storici dell’arte ecc.) che per la moltipli-
cazione degli oggetti di studio (dal testo verso i cultural studies di cui qualsiasi argo-
mento può essere oggetto). E vale la pena di ricordare che la denominazione «Asso-
ciazione italiana per l’informatica umanistica e la cultura digitale» (AIUCD) da un
lato evita l’utilizzo di un’espressione inglese70 dall’altro, nella doppia descrizione
informatica umanistica / cultura digitale, informatica umanistica risponde più diret-
tamente all’impronta caratteristica di questo campo di studi in Italia mentre cultu-
ra digitale tiene conto del contesto internazionale ove l’orizzonte degli studi è costi-
tuito più ampiamente dalle scienze umane.
intersezioni206
69 Fanno eccezione brevissimi cenni contenuti nelle declaratorie di Scienze del libro e del documen-
to, Glottologia e linguistica, Linguistica e filologia italiana.
70 Sono invece numerose nel mondo le associazioni nazionali di Digital humanities di paesi non
anglofoni che utilizzano l’espressione inglese o un suo calco: Humanistica, l’Association francopho-
ne des humanités numériques/digitales; Red de Humanidades digitales (Messico); Asociación Argen-
tina de Humanidades digitales; Czech Digital Humanities Initiative; Russian Association for Digital
Humanities; Digital humaniora i Norden (Scandinavia); Japanese Association for Digital Humanites;
Digital Humanities Association of Southern Africa, Taiwanese Association for Digital Humanities.
Forme dell’interazione tra Digital humanities e biblioteche
Quanto sin qui esposto ha ricostruito in termini di indagine storica la relazione tra
biblioteche e Digital humanities che Dacquino e Tomasi hanno formulato in termi-
ni teorici nel 2016 come parte di una riflessione sulla LIS:
Le biblioteche infatti si qualificano sulla base di alcune delle funzioni che
per definizione connotano anche le DH. Classificazione, gestione e disse-
minazione delle informazioni del proprio dominio – che possiamo racchiu-
dere nell’ampio spettro dell’organizzazione della conoscenza – sono alcune
delle più antiche funzioni che le biblioteche sono votate a svolgere e che a
loro volta identificano una parte fondamentale della metodologia dell’u-
manista informatico
71
.
L’indagine storica delle pagine precedenti ha mostrato in quali modi il passato –
remoto e prossimo – delle Digital humanities ha concorso a definire e configurare le
caratteristiche del presente in cui operiamo: di qui la domanda su come si caratte-
rizzi il presente e che cosa si potrebbe delineare per il futuro dell’interazione com-
plessa tra scienza della biblioteca e Digital humanities. In tale prospettiva, classifica-
zione, gestione e disseminazione delle informazioni possono essere intese sia come
un nucleo fondante dalla cui teorizzazione e pratica consolidate non ci si allonta-
na; sia come concetti che ad ogni svolta evolutiva della cultura e della scienza devo-
no essere ripensati. Saranno presentati dapprima gli esiti di alcuni studi di area sta-
tunitense (del 2011 e 2016), inglese (del 2017), europea (del 2018; a quest’ultimo non
hanno partecipato biblioteche italiane) per poi sviluppare una riflessione analitica
su specifici aspetti.
In area statunitense sono stati pubblicati due surveys sul tema della relazione tra
biblioteche e Digital humanities: nel 2011 Tim Bryson e altri, Digital humanities e nel
2016 Rikk Mulligan, Supporting digital scholarship72. Entrambi editi da ACRL, raccol-
sero informazioni da 64 e 73 biblioteche universitarie rispettivamente. Il report Digi-
tal humanities segnalava come tendenze emergenti nel 2011 la necessità da parte delle
biblioteche di sviluppare linee guida e modelli di gestione dello staff appropriati ad
operare con progetti di Digital humanities; e il fatto che molte biblioteche per rispon-
dere alle richieste dei progetti Digital humanities operavano assumendo un ruolo di
hub di risorse proveniente da differenti dipartimenti. Inteso che Digital humanities
per il survey indicava:
an emerging field which employs computer-based technologies with the
aim of exploring new areas of inquiry in the humanities. Practitioners in
the digital humanities draw not only upon traditional writing and research
skills associated with the humanities, but also upon technical skills and
infrastructure
intersezioni 207
71 Marilena Daquino; Francesca Tomasi, Digital humanities e library and information science: through
the lens of knowledge organization, «Bibliothecae.it», 5 (2016), n. 1, p. 132, DOI: 10.6092/issn.2283-
9364/6109.
72 Tim Bryson [et al.], Digital humanities: SPEC Kit 326. Washington, DC: Association of Research
Libraries, 2011; Rikk Mulligan, Supporting digital scholarship: SPEC Kit 350. Washington, DC: Asso-
ciation of Research Libraries, 2016.
solo quattro biblioteche (pari al 6% del totale) dichiaravano di non offrire servizi
per la digital scholarship73. Poco dopo, proprio a commento del survey citato, Miriam
Posner che ne era coautrice segnalava che i bibliotecari che decidevano di lasciarsi
coinvolgere in attività di Digital humanities finivano col dover sopperire a limiti e
carenze strutturali delle loro istituzioni:
digital humanities has reached new levels of popularity, piquing the interests
of a great many institutions that have little previous experience with it. […]
The result is that the success of library DH efforts often depends on the ener-
gy, creativity, and goodwill of a few overextended library professionals and the
services they can cobble together. […] So there are very good reasons why indi-
vidual librarians may choose to eschew digital humanities work, and they have
to do with the lag between libraries’ enthusiasm for DH and institutions’ abil-
ity to support it in meaningful ways
74
.
Il survey del 2016, Supporting digital scholarship definiva le Digital humanities75 come «use
of digital evidence and method, digital authoring, digital publishing, digital curation
and preservation, and digital use and reuse of scholarship» e il proprio scopo come
to gather data on how the librarians, faculty, and professional staff in research
libraries support a great variety of multimodal research as collaborative schol-
arship, as collaborators, services, and in partnership with other units within
and beyond the library
76
ponendo l’attenzione su 19 tipi di attività riconducibili alle Digital humanities: GIS
e cartografia digitale; digitalizzazione di fonti analogiche; realizzazione di collezio-
ni digitali; creazione di metadati; digital preservation; data curation and management;
modellazione e stampa 3D; analisi statistica e attività di supporto; digital exhibits;
project planning; project management; editoria digitale; computational text analysis e
attività di supporto; progettazione di interfacce e/o usabilità; visualizzazione; svi-
luppo di database; codifica di contenuto (per esempio annotazione TEI); aggiorna-
mento tecnico di prodotti e progetti; sviluppo di software per la ricerca in Digital
humanities. Le conclusioni erano che queste 19 tipologie di attività erano tutte in
vario grado supportate nelle biblioteche che avevano risposto77. Rispetto a quanto
osservato nel survey del 2011 il sostegno alle iniziative di Digital humanities è più siste-
matico e spesso organizzato dall’interno della biblioteca anche perché gli studiosi
spesso chiedono sostegno sull’intero ciclo di vita del progetto di ricerca, che spesso
necessita principalmente di collezioni speciali o digitali. In linea con questo, la biblio-
intersezioni208
73 T. Bryson [et al.], Digital humanities cit., p. 9.
74 Miriam Posner, No half measures: overcoming common challenges to doing digital humanities in
the library, «Journal of library administration», 53 (2013), n. 1, p. 43-52, .
75 L’espressione usata nel survey è «Digital scholarship in the Humanities», a segnalare che le Huma-
nities propriamente non sono né digitali né non digitali; ma sono digitali i metodi di studio e di ricer-
ca presi in esame.
76 R. Mulligan, Supporting digital scholarship cit., p. 3.
77 Ivi, p. 10.
teca opera come centro sia di ‘ricerca’ sia di ‘disseminazione’ il che porta all’atten-
zione il problema sia di rendere le collezioni accessibili al pubblico generico, sia
(anche per questo) di dotare la biblioteca di sistemi di storage e gestione che intera-
giscano al meglio con strumenti e metodi digitali. Il contesto ampio è quindi quel-
lo che in Italia viene denominato terza missione:
sharing research with the public as a foundational stakeholder – by better sup-
porting public history, public scholarship, and becoming a conduit for life-
long learning and active citizen scholarship
78
.
Il survey inglese del 2017 di Christina Kamposiori, The role of research libraries in the
creation, archiving, curation, and preservation of tools for the digital humanities79 si basa
su 27 risposte da parte di biblioteche del Regno Unito e afferma che
Based on the results […] there is a role for libraries in the creation, archiving,
curation and preservation of tools for Digital Humanities research, mainly as a
collaborative activity between library professionals and researchers in the field
80
quasi in risposta a un dubbio preliminare non dichiarato: «ma c’è possibilità di
collaborazione tra biblioteche e studi nelle Digital humanities?». Non mancano
gli aspetti delicati, che riguardano principalmente la capacità di assicurare la
manutenzione e conservazione a lungo termine di ciò che è stato realizzato per
la ricerca e l’insegnamento; la mancanza di modelli condivisi sulla scelta e uso
delle risorse necessarie per i progetti di Digital humanities; il fatto che i progetti
di Digital humanities quando accolti portano con sé un ampliamento di respon-
sabilità per i bibliotecari; il fatto che se si vuole che i progetti abbiano ricadute
positive per le istituzioni coinvolte occorre prevedere condivisione di conoscen-
za e di buone pratiche81.
Il survey europeo del 2018 di Lotte Wilms, A mini survey of digital humanities in
European research libraries realizzato all’interno della rete LIBER, segnala fin dalle
prime righe che in Europa la collaborazione tra progetti di Digital humanities e biblio-
teche sta appena iniziando:
Of the 22 libraries who responded 8 have been running a DH activity for under
a year. 11 been active between 1-5 years, only 3 libraries have had a DH activity
for more than 5 years.
Quasi tutte (19 in totale) hanno però uno staff dedicato: in 13 di esse lo staff dedica-
to va da 2 a 5 persone mentre in 6 lo staff va da 6 a 10 persone. In 16 di esse quest’at-
tività nell’ambito delle Digital humanities deriva da esplicite scelte programmatiche
e coerentemente 13 di esse hanno fondi specifici destinati a questo. Quanto alla cono-
scenza da parte dei professori dell’attività della biblioteca in ambito Digital huma-
intersezioni 209
78 Ibidem.
79 Christina Kamposiori, The role of research libraries in the creation, archiving, curation, and preser-
vation of tools for the digital humanities. London: Research Libraries UK, 2017.
80 Ivi, p. 5.
81 Ibidem.
nities, essa è descritta come «vaga» in 9 casi su 22, mentre in altri 5 è assente benché
i bibliotecari operino attivamente per diffondere questa conoscenza82.
Nelle pagine seguenti ci soffermeremo su specifiche questioni che sono a nostro
giudizio di particolare importanza e che nei surveys descritti non compaiono, o riman-
gono marginali, forse anche perché difficile da affrontare in tale forma.
L’asimmetria informativa
In primo luogo occorre tener conto di una asimmetria tra mondo fisico e mondo
digitale, dal punto di vista dell’informazione: nel mondo digitale è abbondante
l’informazione che descrive il mondo fisico, mentre non è vero il contrario: l’infor-
mazione che descrive il mondo digitale è scarsa nel mondo fisico. A conferma di que-
sto, da decine di anni i cataloghi delle collezioni delle biblioteche sono disponibili
online, e lo sono con una forza, con un’intenzionalità condivisa, evidenti: lo dice il
fatto che le biblioteche iniziarono a dare accesso online ai loro cataloghi agli inizi
degli anni Novanta del secolo scorso quando per accedervi occorrevano un compu-
ter, competenze tecniche non irrilevanti (l’accesso in Telnet con la configurazione
dei parametri del terminale) e informazioni molto specifiche per ogni catalogo. Que-
sto fece sì che per molte biblioteche l’OPAC diventasse rapidamente una modalità
standard di incontro con i lettori nel mondo digitale – tanto che spesso l’utente non
esperto quando scopre che esiste l’OPAC crede che esso, inteso come la presenza
della biblioteca nel mondo digitale (!), dia accesso al testo delle opere possedute dalla
biblioteca stessa. Si manifestano in questo due linee di tendenza: la prima è quella
per cui il mondo digitale è sentito come un pervasivo contesto di accesso all’infor-
mazione, la seconda strettamente connessa con la prima è quella per cui (anche da
chi non conosce i Manifesti IFLA!) la biblioteca è comunque concepita come luogo
di accesso alla conoscenza, e dunque se la si incontra online si presume (a prescin-
dere da aspetti tecnici come la differenza tra OPAC e biblioteca digitale) che lì si possa
accedere alle sue collezioni. Per la vita dei cittadini l’asimmetria informativa è evi-
dente nella quotidianità: si prende in mano lo smartphone, o si apre il computer,
per cercare informazione sullo stato del, o per ‘operare’ nel, mondo fisico: informarsi
sugli orari dei trasporti, acquistare un biglietto di treno, informarsi sul meteo e deci-
dere se compiere oppure no una certa attività, informarsi sui giorni e ore di apertu-
ra di un museo per decidere quando andare a visitarlo; confrontare e acquistare
occhiali, scarpe, abiti; e altro ancora. La medesima asimmetria governa anche le rela-
zioni del cittadino con le istituzioni pubbliche: si comunica attraverso il mondo digi-
tale per definire azioni e scelte che opereranno nelle vite delle persone nel mondo
fisico. Per non parlare della ricerca, che sempre più utilizza risorse informative e fonti
che si trovano nel mondo digitale.
Se tutto questo accade nei contesti ordinari della lettura, della cittadinanza, dello
studio e ricerca, ‘a maggior ragione’ si verifica per chi pratica l’informatica umani-
stica o Digital humanities: gli oggetti e gli strumenti con cui si opera sono digitali, e
i prodotti della ricerca sono digitali anch’es si. Quindi alle biblioteche che vogliano
collegarsi con questo mondo effervescente e tumultuoso delle Digital humanities
occorre essere fortemente presenti nel mondo digitale con una capacità progettua-
le specifica e innovativa che esprima sia servizi sia contenuti. È ovvio che questo
possa distur ba re o preoccupare. Da un lato perché alle spalle c’è un lunghissimo
tempo in cui per le biblioteche l’essere luogo di accesso alla conoscenza ha signifi-
intersezioni210
82 Lotte Wilms, A mini survey of digital humanities in European research libraries. LIBER, 2018, p. 5.
cato gestirne i supporti fisici tanto che sembrava possibile assimilare i supporti e il
contenuto; di fronte ci sono un presente e un futuro in cui invece l’informazione e
la conoscenza si presentano smaterializzate, svincolate da un supporto fisico. Ma
le biblioteche sono sempre state luoghi di connessioni più che di collezioni:
luoghi di incontri e di azioni attraverso i media; alveari di attività dove ciò che
è vivo sta insieme a ciò che è morto, oltre che naturalmente insieme a ciò che
è vivo; e insomma luoghi dove questa condivisione è generativa in quanto capa-
ce di preservare forme di conoscenza ereditate mentre ne produce di nuove
83
e dunque il mutamento delle forme, che appare come un cambiamento destabiliz-
zante, è piuttosto la riscoperta o la riaffermazione di una caratteristica costitutiva.
Dall’altro perché, in tempi difficili in cui le biblioteche come la cultura nel suo
complesso perdono risorse (denaro e persone), tutto ciò che prospetta percorsi inno-
vativi sembra richiedere proprio quelle risorse che mancano già per l’ordinario. Eppu-
re rinunciare ad avere linee di azione non è una risposta efficace perché si rischia di
non essere pronti a cogliere le occasioni che si presenteranno. Esporremo quindi le
considerazioni delle pagine che seguono con rispetto per la storia che ha formato le
biblioteche e con consapevolezza delle componenti problematiche.
I contenuti
Gli studiosi che lavorano nell’ambito delle Digital humanities operano su fonti in for-
mato digitale. Le fonti possono essere molto differenti fra loro: dai testi di qualsiasi
tipo, a registrazioni audio-video (collezioni fotografiche, film, brani musicali, regi-
strazioni ecc.) a collezioni di beni culturali materiali o immateriali ecc. Come si è visto
nelle pagine precedenti, nel corso del tempo c’è stato uno spostamento dell’origina-
ria impronta di informatica umanistica/humanities computing centrata sullo studio
dei testi verso quelli che vengono chiamati in senso ampio i cultural studies che hanno
per oggetto qualsiasi forma delle espressioni delle culture umane – e questo in qual-
che misura trova un corrispettivo pragmatico nella trasformazione della biblioteca
da luogo di accesso alla conoscenza veicolata dalla stampa (collezioni formate da
monografie e periodici), alla biblioteca come luogo di accesso alle espressioni della
creatività umana e delle culture – di qui l’evoluzione che ha portato agli spazi di gioco
per i bambini, alle videoteche, cineteche, collezioni di musica, alle sale computer,
all’ospitalità per i makers. Quindi anche l’espansione degli interessi dagli studi testua-
li dell’informatica umanistica ai cultural studies delle Digital humanities può trovare
piena corrispondenza nell’evoluzione delle collezioni delle biblioteche.
Nel contesto delle Digital humanities però le fonti vengono sostanzialmente sem-
pre decostruite, smontate, lette trasversalmente, per mezzo di strumenti e metodi
appositi. ‘Se ciò può avvenire è perché le fonti sono digitali e in formato aperto’. La
cosa è solo apparentemente semplice e ovvia: infatti molto spesso le fonti disponi-
bili in biblioteca sono in formati chiusi/protetti che non permettono una fruizione
differente da quella prefigurata dall’autore e dall’editore – semplicemente perché
questo è il modo in cui vengono normalmente venduti (e gestiti normativamente)
nel mondo fisico libri, riviste, film, musica. A dire che i formati chiusi, a parte altri
problemi, sono perfetti quando la modalità di fruizione è quella prevista dall’edito-
intersezioni 211
83 Jeffrey T. Schnapp, La biblioteca oltre il libro. In: La biblioteca che cresce cit., p. 13.
re, che in genere è una fruizione sequenziale nel tempo: la lettura del libro, la visio-
ne del film, l’ascolto della musica. E dunque il digital humanist che per suo uso per-
sonale digitalizza un’opera allo scopo di potervi ‘effettuare privatamente operazio-
ni di analisi’ infrange comunque le norme della legge sul diritto d’autore perché sta
riproducendo integralmente l’opera anche se poi non la condividerà con nessuno;
ma non può farne a meno perché il lavorare sulle fonti decostruendole, smontan-
dole, ricostruendole è una caratteristica essenziale delle Digital humanities e ciò può
realizzarsi solo se le fonti sono digitalizzate. In altre parole lo studioso digitale vuole
scegliere da sé l’approccio al contenuto, vuol scegliere quale lettura operare (lettura
in senso semiotico, non ci riferiamo solo a fonti scritte) – e pressoché sempre ciò
comporta come precondizione la disponibilità del materiale di studio in forma digi-
tale. Se il contenuto ricade sotto la legge sul diritto d’autore ovviamente le questio-
ni connesse con la sua digitalizzazio ne sono troppo complesse per poter essere discus-
se qui. Ma una grande quantità di fonti testuali è disponibile per la digitalizzazione
perché fuori diritti ed esistono oggi sia ottimi (ed economici) dispositivi di digita-
lizzazione; sia programmi di riconoscimento del testo che traggono vantaggio da
un’ottima digitalizzazione delle pagine. Analogamente per le fonti fotografiche, o
audio/video, con la sola differenza che le operazioni di digitalizzazione sono più
complesse e le attrezzature necessarie più costose. Se la biblioteca in piena continuità
con la modalità fisico/analogica di lavoro sulle fonti offre allo studioso i visori per
studiare le fonti disponibili in microfilm, la biblioteca che vuole occupare uno spa-
zio nel mondo digitale dovrebbe oggi offrire allo studioso uno spazio di lavoro digi-
tale sulle fonti (ancora una volta sottolineiamo, di qualsiasi natura esse siano: testo,
audio, video, immagine) e di digitalizzazione delle opere fuori diritti84.
La pura digitalizzazione delle fonti (che per quelle a stampa ha un duplice pas-
saggio: acquisizione delle immagini e riconoscimento del testo) non termina il per-
corso di lavoro di preparazione perché spesso oggi lo studio di una fonte digitaliz-
zata implica il suo arricchimento con l’annotazione formale del contenuto – nel caso
del testo essa in genere utilizza il linguaggio XML secondo lo standard TEI per par-
lare di contenuti espressi in termini di ontologie formali. Ma si può ricorrere a un
ampio spettro di risorse linguistiche di crescente complessità e raffinatezza: da una
semplice lista di termini, a un glossario, a una tassonomia, a un tesauro, fino a un’on-
tologia85. Lo scopo è di descrivere in tutto o in parte, in modo formalizzato e sia com-
prensibile dagli studiosi sia utilizzabile dai computer (le ontologie formali sono pro-
prio descrizioni-ponte di specifici ambiti di conoscenza, scritte in modo da essere
comprensibili agli essere umani e utilizzabili dalle macchine), la fonte, il suo conte-
nuto e/o la sua struttura formale; e di rendere possibile l’inserimento di note di com-
mento: si può pensare a un’ontologia geografica come Geonames o GO! per arric-
chire la soggettazione delle collezioni rendendo possibile la selezione di opere che
riguardano una determinata area geografica; o all’annotazione del testo di un’ope-
intersezioni212
84 O, previa formazione legale e pratica, delle parti fuori diritti di un’opera complessa come un’edi-
zione critica: il diritto d’autore su di essa cessa in Italia dopo 30 anni dalla pubblicazione.
85 «Questa infrastruttura tecnologica è costituita da una serie di strumenti condivisi di controllo ter-
minologico e di disambiguazione semantica, che permettono di descrivere univocamente dati e di
esprimere la loro semantica formale: si tratta sostanzialmente di linguaggi, metalinguaggi, vocabo-
lari controllati e ontologie» (Gianfranco Crupi, Universo bibliografico e semantic web, «Quaderni Digi-
Lab», 2 (2012), n. 1, p. 277-306).
ra per evidenziarne le caratteristiche grammaticali/sintattiche, o in un testo lette-
rario per segnalare l’interpretazione di un passo difficile rinviando alla eventuale
fonte su cui si basa l’interpretazione; per un’immagine si può pensare all’identifi-
cazione di un soggetto raffigurato86 creando un rimando a un authority file come
VIAF se il soggetto è una persona. Nel far questo non si pensa a una successiva ripro-
duzione della fonte bensì a renderne possibile una lettura e uno studio analitici: ad
esempio, in un’opera teatrale, le battute del personaggio X che contengono un’a-
postrofe alla seconda plurale; in una collezione di immagini quelle in cui è raffigu-
rato un dato personaggio in un dato ambiente87.
Da un lato vediamo quindi che
come risultato delle loro attività di ricerca e di didattica, molti studiosi appar-
tenenti all’area umanistica sono diventati creatori di contenuti digitali. Per
questi studiosi è sempre più diffusa l’esigenza di avere certe conoscenze tecni-
che e metodologiche di base
88
dall’altro, a fronte della varietà e complessità della progettazione della ricerca (dal
modello concettuale, agli strumenti, ai metodi ecc.) la digitalizzazione delle fonti
con i suoi vari passaggi rimane un punto fermo: perché se le fonti non sono digita-
lizzate la ricerca in sostanza non si può sviluppare in ambito Digital humanities. La
discussione sulla teorizzazione e i modelli nelle Digital humanities è vivace89 e ha un
indubbio significato formativo per il campo disciplinare anche perché cerca di strut-
turarlo in modo forte in rapporto ad altri soggetti forti con cui si vuole relazionare
(informatica, linguistica, teoria della conoscenza) ma questo lavoro di strutturazio-
ne teorica ha comunque come inizio e come fine le effettive, reali, attività di ricerca
che operano sulle/con le fonti digitalizzate.
È evidente che l’interesse della questione, dal punto di vista delle modalità ope-
rative della LIS, è che la biblioteca (ri)diventi in collaborazione con gli studiosi luogo
non solo di fruizione ma anche di co-ideazione/definizione di forme, e di co-pro-
intersezioni 213
86 Un esempio chiaro di annotazione di immagini in Fabio Cusimano, Il digitale in biblioteca: prezio-
sa opportunità di crescita e integrazione, o deriva verso la frammentazione?. In: La biblioteca che cre-
sce cit. p. 223.
87 In marzo 2019 si è svolto nella mailing list Humanist ()
un vivace dibattito su quali siano i caratteri distintivi (i limiti!) dell’annotazione formale del testo e di
quanto (o quanto poco) essa sia adatta a raggiungere gli scopi appena menzionati – ma la discussio-
ne stessa indica che si ritiene che l’annotazione sia appropriata a questi scopi pur essendoci ampio
disaccordo su quale tipo di annotazione sia migliore.
88 Anna Maria Tammaro, Biblioteca digitale per l’informatica umanistica. In: E-laborare il sapere nel-
l’era digitale: strumenti e tecniche per la gestione, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio
culturale in ambiente digitale, Montevarchi, 22-23 novembre 2007, p. 4; .
89 Si possono ricordare D. Buzzetti, Digital representation and the text model cit.; Arianna Ciula;
Øyvind Eide, Modelling in digital humanities: signs in context, «Digital scholarship in the Humani-
ties», 32 (2016), suppl. 1, p. i33-i46; Steven E. Jones, Turning practice inside out: digital humanities
and the eversion. In: The Routledge companion to media studies and digital humanities cit., p. 267-
273; Michael Gavin, Vector semantics, William Empson, and the study of ambiguity, «Critical inquiry»,
44 (2018), n. 4, p. 641-673, DOI: 10.1086/698174.
duzione di strumenti di lettura, dei testi. Un testo digitalizzato è un contenuto, ma
la forma digitalizzata è lo strumento che permette quelle letture analitiche di studio
che sarebbero altrimenti impossibili. Sia la digitalizzazione sia l’annotazione dei testi
rimandano a modalità di lavoro già note in passato: l’una rimanda allo scriptorium
e l’altra rimanda alle glosse. Tra un laboratorio di digitalizzazione e uno scriptorium
ci sono sia differenze importanti sia elementi di continuità, ma ciò che interessa qui
sottolineare è che queste sono attività di lavoro sul testo nate nelle biblioteche, che
si presentano ora nelle modalità specifiche della contemporaneità digitale. Se oggi
esse si attuano spesso al di fuori delle biblioteche (in laboratori specializzati o nella
stanza del singolo studioso) è più per un concorso di circostanze che per una irri-
ducibile estraneità ad esse. E ove vi fosse qualche dubbio o perplessità sul fatto che
digitalizzazione significhi una dissimulata e banale attività di mera riproduzione
occorre sottolineare che l’attività di annotazione del testo è un’attività autoriale a
pieno titolo che si basa su vaste competenze disciplinari il cui dispiegamento e messa
in atto richiedono un notevole investimento di tempo90.
L’insieme delle attività che possono portare le biblioteche a (ri)diventare luoghi
non solo di fruizione ma di produzione di forme e strumenti di lettura dei testi in
autonomia o in interazione e collaborazione con gli studiosi che operano in ambi-
to di Digital humanities è ampio e permette varie scelte: dal dotarsi delle attrezzatu-
re necessarie e fornirle agli studiosi interessati, a fornire non solo attrezzature ma
anche formazione all’uso, a operare autonomamente sull’intera attività dall’acqui-
sizione delle pagine fino all’annotazione semantica91. In questo percorso, quale che
sia la forma scelta, entrano prepotentemente le questioni relative ai formati e quel-
le connesse con il diritto d’autore e le licenze aperte: occorre che i prodotti digitali
siano sia scritti in formati che garantiscano per quanto possibile la durata nel tempo
sia distribuiti in accesso aperto (pubblicare in accesso aperto al tempo 0 un testo in
un formato proprietario sarebbe un controsenso perché l’evoluzione del formato e
del software potrebbe portare al tempo 1 ad avere un testo in accesso aperto tecno-
logicamente inaccessibile). Questioni che i bibliotecari conoscono e con cui molti
soprattutto nelle biblioteche di ricerca si confrontano ogni giorno.
La gestione dei contenuti
Per biblioteche che decidano di essere incisivamente presenti nell’ambito delle Digi-
tal humanities e della digitalizzazione di fonti a fini di ricerca92, il più evidente tema
intersezioni214
90 Nella biblioteca digitale “Digital Latin library” alla pagina si legge: «Markup as Scholarship. [The] semantic markup with XML must
be considered part of the original, scholarly contribution of a digital critical edition, which in turn
means that there must be a way of evaluating markup as scholarship. Accordingly, the DLL project is
developing a rubric for assessing the quality of scholarly markup in editions submitted for publica-
tion in the Library of Digital Latin Texts. This rubric takes several standards into consideration, includ-
ing not only adherence to the long-standing best practices of textual criticism, but also the guidelines
established by the Text Encoding Initiative for using XML in scholarly editions».
91 Si veda ad esempio Harriett E. Green, Facilitating communities of practice in digital humanities:
librarian collaborations for research and training in text encoding, «The library quarterly», 84 (2014),
n. 2, p. 219-34, DOI: 10.1086/675332.
92 Lo schema concettuale più semplice è ‘contenuti – servizi’, lo studioso produce contenuti e la bib-
lioteca fornisce i servizi di catalogazione conservazione e accesso («A significant portion of the respons-
di lavoro è quello della gestione dei prodotti digitali realizzati localmente: cataloga-
zione, conservazione, gestione. Infatti non basta, ad esempio, che per una ricerca di
public history siano state digitalizzate N annate di stampa locale: occorre che esse
siano adeguatamente catalogate e conservate e diventino individuabili e utilizzabi-
li anche al di fuori dell’istituzione pubblica che le ha prodotte. In altre parole la cata-
logazione moltiplica il valore sociale del lavoro di acquisizione e digitalizzazione:
perché intorno alla risorsa si incontrano tutti i soggetti (persone e istituzioni) che
condividono l’interesse per essa, cioè l’esistenza accessibile della risorsa crea l’occa-
sione di conoscenza fra soggetti. Di qui in avanti è breve il passo verso questioni più
complesse come la conservazione a lungo termine, perché in certo modo la ricerca
esiste finché esistono i suoi prodotti; la sostenibilità, perché un progetto di Digital
humanities richiede (consuma!) risorse in termini di tempo, competenze, denaro; e
infine verso la possibilità di iniziative condivise tra biblioteche e altre istituzioni93,
iniziative per le quali visibilità e sostenibilità sono due elementi chiave.
In relazione alla catalogazione dei prodotti digitali realizzati localmente, è vero
che da tempo le biblioteche catalogano, conservano e distribuiscono prodotti edi-
toriali in forma digitale, sia libri (e-books) sia riviste (e-journals); ma occorre ricor-
dare che in genere ciò avviene nel quadro di contratti con intermediari che opera-
no sul prodotto (fornitori di pacchetti di riviste e/o e-book) e/o sulle risorse
informatiche (fornitori di servizi di accesso ai file delle pubblicazioni e/o di ricerca)
e dunque la gestione dei prodotti digitali realizzati localmente comporta la neces-
sità di ampliare e/o approfondire le competenze di gestione dei prodotti digitali. La
questione di una catalogazione che renda reperibile, e quindi disponibile, global-
mente un prodotto realizzato localmente in un contesto di ricerca accademica non
si può risolvere semplicemente con il deposito istituzionale della ricerca IRIS perché
esso sia non prevede l’entrata di contenuti che abbiano autore al di fuori del conte-
sto accademico, sia opera per nuclei separati corrispondenti alle università e centri
di ricerca, sia infine perché la digitalizzazione di fonti non sempre si amplia in quel
lavoro di annotazione formale che ne fa prodotto autoriale.
Le risposte a questa necessità di catalogazione e accesso possono essere di due tipi,
fondamentalmente. Se si ragiona sul problema in termini molto strutturati, lo stru-
mento appropriato potrebbe essere un meta-catalogo che permetta di interrogare in
modo integrato tutti i singoli cataloghi che raccolgono le fonti digitalizzate local-
mente e che idealmente dovrebbero essere dotate di DOI. Un ottimo esempio sia della
complessità strutturale sia delle opportunità offerte da questo modello è costituito
dallo SHARE catalogue, l’OPAC che permette la ricerca integrata nei cataloghi delle
intersezioni 215
es seem to assume that when we are talking about “doing digital humanities” in libraries, we are talk-
ing about some kind of service libraries might provide»; Trevor Muñoz, Digital humanities in the library
isn’t a service, «Trevor Muñoz», 19 agosto 2012, ). Tutto questo però, continua Muñoz, frena il coinvolgimento delle biblioteche
nelle Digital humanities anziché promuoverlo: «Framing digital humanities in libraries as a service to
be provided and consequently centering the focus of the discussion on faculty members or others out-
side the library seem likely to stall rather than foster libraries engagement with digital humanities.
Digital humanities in libraries isn’t a service and libraries will be more successful at generating engage-
ment with digital humanities if they focus on helping librarians lead their own DH initiatives and pro-
jects. Digital humanities involves research and teaching and building things and participating in com-
munities both online and off». Ma si veda anche M. Posner, No half measures cit.
93 J. Schaffner; R. Erway, Does every research library need a digital humanities center? cit., p. 7.
Università della Basilicata; di Napoli Federico II, Parthenope, orientale; del Salento;
di Salerno; del Sannio; della Campania Vanvitelli94. In questo caso una volontà cen-
trale grazie a mezzi tecnologici avanzati connette cataloghi distribuiti negli spazi digi-
tali delle istituzioni di afferenza: il concetto è chiaro ma la realizzazione è complessa:
i progetti inclusi nella famiglia SHARE sono promossi dalle biblioteche per sta-
bilire procedure per l’identificazione e la riconciliazione di entità, la conver-
sione di dati in Linked Data e la creazione di un ambiente di discovery virtua-
le basato sulla struttura a tre livelli del modello di dati BIBFRAME. Da un punto
di vista tecnologico questi progetti sono per lo più basati sulla Linked Open
Data Platform, un sistema tecnologico innovativo per la gestione dei dati biblio-
grafici, archivistici e museali, e la loro trasformazione in Linked Data
95
.
Se invece si ritiene appropriato uno strumento a bassa intensità tecnologica (niente
discovery, né linked data, e simili) il caso esemplare non solo per le sue caratteristiche
ma anche per la sua storia è l’Oxford text archive (OTA) che venne fondato nel 1976
da Lou Burnard e Susan Hockey sotto l’egida degli Oxford University Computing Ser-
vices. Erano tempi pre-web: i testi in formato elettronico venivano messi su floppy
disk e spediti per posta ordinaria, a un costo che copriva le spese per il supporto e la
spedizione. Oggi si presenta come una biblioteca digitale che contiene circa 2.700
testi annotati in TEI, 1.600 in altri formati e 84 corpora (nel 1998 la suddivisione dei
formati era tra TXT, SGML e HTML). Quanto alla formazione delle 3 collezioni, OTA
dichiara di fare affidamento «upon deposits from the wider community as the pri-
mary source of high-quality materials»96: chi conosce l’OTA conferisce i testi digita-
lizzati liberi da diritti che ha prodotto. In tutto ciò ovviamente ha una parte impor-
tante il fatto che OTA nel corso di più di 40 anni di attività si è guadagnato notorietà
e autorevolezza. Il modello non è ad alta intensità tecnologico-organizzativa e dun-
que è più sostenibile di altri in quanto in sostanza si tratta di un’interfaccia di con-
sultazione, selezione, download, di file da un server (nei primi tempi del web, OTA
permetteva il download diretto tramite FTP97) più agile e semplice da mantenere. L’a-
gilità e semplicità sono certamente l’esito di scelte progettuali esplicite e non di iner-
zia di fronte all’evoluzione tecnologica perché (grazie all’Internet archive) è comun-
que possibile osservare nell’OTA una costante evoluzione nel corso del tempo.
Un altro vasto ambito digitale in cui si potrebbero attuare significative azioni di Library
and information science è quello della conservazione e accesso alla «memoria degli studi»:
Preservare a lungo termine le memorie collettive e personali degli ultimi decen-
ni è un’impresa resa particolarmente complessa dalla necessità di integrare
competenze appartenenti ad ambiti considerevolmente diversi: discipline let-
terarie, tecniche archivistiche, tecnologia dell’informazione, questioni giuri-
intersezioni216
94 SHARE catalogue, s.d., .
95 Tiziana Possemato; Claudio Forziati, Riuso, interoperabilità, influenza: la cooperazione virtuosa
tra i progetti SHARE e Wikidata. In: La biblioteca che cresce: contenuti e servizi tra frammentazione e
integrazione cit., p. 232.
96 .
97 Oxford text archive, The OTA public ftp service, 1998, .
diche, aspetti amministrativi. Inoltre, la gestione dell’archivio digitale pre-
suppone l’aggiornamento costante dei modelli di dati, degli standard e delle
procedure per far fronte alla crescente varietà delle fonti documentarie
98
.
Fino a che il contesto della pubblicazione coincideva con la stampa, alla morte di uno
studioso spesso la sua biblioteca personale entrava a far parte, come fondo speciale, di
una biblioteca accademica o di ricerca e analogamente poteva accadere per il suo archi-
vio personale di lettere. Il senso e lo scopo dell’acquisizione sono ovviamente di per-
mettere di conoscere e di studiare il modus operandi, gli interessi, dello studioso. La situa-
zione che si verifica oggi in modo paradigmatico alla morte di un umanista digitale99 è tale
da rendere impossibile il recupero della parte digitale della memoria degli studi se non
siano stati concepiti e messi in atto dei protocolli precisi e specifici per fronteggiare pro-
blemi come le password di accesso ai dispositivi, all’hard disk esterno, ai servizi in abbo-
namento ecc. Per quanto riguarda l’accesso ai contenuti non pubblicati di proprietà intel-
lettuale dallo studioso, tali protocolli richiedono solo la volontà delle parti coinvolte e
una buona dose di competenza tecnica da parte dell’ente destinatario del lascito; ma
impattano con questioni legali specifiche del mondo digitale per esempio per quanto
attiene al trasferimento di eventuali opere con accesso a pagamento di cui lo studioso
possedeva la licenza, perché la licenza è personale; e spesso scade se non ne viene rinno-
vato il pagamento. Il risultato è che lo studioso (o gli eredi) non potrebbero lasciare il
fondo a una biblioteca se non per la parte digitale in accesso aperto e per quella a stam-
pa. A completare il contesto di lavoro dello studioso concorre sempre più anche la posta
elettronica ma ad oggi sono pochi gli approcci archivistici alla sua gestione conservati-
va. Essa infatti presenta a sua volta specifici problemi tecnici (formati, programmi di
gestione, password, allegati, eventuale presenza di virus e malware ecc.) oltre a quelli con-
sueti (essenzialmente la definizione dei confini tra attività di studio e vita privata).
Part of the problem is complexity. Email is not one thing, but a complicated inter-
action of technical subsystems for composition, transport, viewing, and storage.
Archiving email involves multiple processes. Archivists must build trust with donors,
appraise collections, capture them from many locations, process email records,
meet privacy and legal considerations, preserve messages and attachments, and
facilitate access. […] Email preservation is doable, but not yet done by enough archives
to achieve our shared community goal to preserve correspondence, as we did for
the paper-based archives that have facilitated untold historical insights
100
.
intersezioni 217
98 Paul Gabriele Weston; Emmanuela Carbé; Primo Baldini, Se i bit non bastano: pratiche di conser-
vazione del contesto di origine per gli archivi letterari nativi digitali, «Bibliothecae.it», 6 (2017), n. 1,
p. 154-77, DOI: 10.6092/issn.2283-9364/7027; Stefano Allegrezza, Le criticità nella conservazione
degli archivi di persona tra passato, presente e futuro. In: Gli archivi di persona nell’era digitale: il
caso dell’archivio di Massimo Vannucci. Bologna: Il Mulino, 2016, p. 41-72.
99 Ma in realtà la situazione di verifica per ogni studioso, perché sono sempre meno numerosi colo-
ro che non hanno mai scritto al computer una stesura di un articolo o di un saggio o non hanno scam-
biato email su argomenti di lavoro.
100 Task force on technical approaches for email archives, The future of email archives: a report from
the task force on technical approaches to email archives, August 2018. Washington, DC: Council on
Library and Information Resources, 2018, vol. 195, p. 11, .
Questo recente report del Council on Library and Information Resources è totalmente
dedicato alla questione della conservazione della posta elettronica, e presenta sia un
quadro complessivo delle po ten zialità e dei problemi, sia una serie di strumenti
software per la gestione archivistica dell’e-ma il, ma soprattutto vuole costruire «a
working agenda for the community to improve and refine this technical framework,
to adjust existing tools to work within this framework, and to begin filling in the
missing elements». Il punto centrale della questione consiste nel fatto che la con-
servazione unitaria (prodotti a stampa e prodotti digitali) dei fondi bibliotecari degli
studiosi e la conservazione archivistica dell’e-mail sono reciprocamente connesse:
l’una ha poco senso senza l’altra. L’iniziativa PAD, Pavia archivi digitali, diretta a
Pavia da Paul Gabriele Weston può apparire simile a quanto qui delineato, ma essa
è focalizzata su autori viventi di opere pubblicate che sottoscrivono un contratto per
affidare a PAD la conservazione dei materiali digitali ad esse relative101 e il contesto
digitale in cui si sono sviluppate102. Quanto proponiamo, in certo modo comple-
mentare al PAD, è di ridefinire in modo più ampio che in passato la cessione di fondi
personali librari e archivistici alle biblioteche da parte degli eredi di studiosi, tenen-
do conto delle mutate modalità di lavoro degli studiosi stessi che sono sempre più
miste di analogico e digitale. Parte determinante di questa ridefinizione è la defini-
zione di protocolli operativi per la gestione e soluzione dei problemi tecnici specifi-
ci del digitale che ancora una volta chiamano in gioco quella primaria componen-
te della Library and information science già ricordata costituita dalla gestione delle
informazioni, dall’organizzazione della conoscenza e dal successivo accesso anche
attraverso modalità di ricerca.
La successiva questione complessa legata alla produzione o al possesso di fonti
digitali/digitalizzate è, come si ricordava, quella della conservazione a lungo termi-
ne: conservazione che le protegga sia da guasti, sia da mutamenti nei contesti che le
hanno prodotte (una biblioteca chiude, un sito web cambia103, un fornitore di softwa-
re non assiste più il prodotto ecc.). L’iniziativa di conservazione a lungo termine
Magazzini digitali104 in corso in fase sperimentale ad opera delle biblioteche nazio-
nali centrali fa riferimento alle opere depositate in ove il crite-
rio di ammissione è attualmente che la pubblicazione sia o una tesi di dottorato o il
prodotto di un editore (e quindi al momento in cui si scrive questo articolo qualsia-
si attività di digitalizzazione e annotazione di fonti a stampa prodotte in un conte-
sto di ricerca o di conservazione che non arrivi alla pubblicazione editoriale non può
seguire quella strada). D’altra parte il nome stesso ‘deposito legale’ implica che il qua-
dro di riferimento complessivo sia quello delle attività di soggetti giuridici operan-
ti nell’editoria e non quello di iniziative di ricerca di singoli o di gruppi. Si desidere-
rebbe dunque un allargamento che permetta se non ancora a tutti i (semplici)
intersezioni218
101 P.G. Weston; E. Carbé; P. Baldini, Se i bit non bastano: pratiche di conservazione del contesto di
origine per gli archivi letterari nativi digitali cit., p. 154–77. Un autore può non rinnovare il contratto e
ritirare tutti i suoi scritti dal PAD (ivi, p. 160).
102 Al punto che la gestione digitale dei prodotti prevede i comportamenti da adottare nel caso che
vengano individuati dei virus o dei malware (ivi, p. 165).
103 Alcune fonti web citate in questo articolo (alle note: 38, 97, 105 e 112), per le quali si fa riferimento
all’Internet archive manifestano in evidenza il problema.
104 Giovanni Bergamin; Maurizio Messina, Magazzini digitali: dal prototipo al servizio, «DigItalia», 1
(2010), p. 1-10, .
documenti elettronici (definiti dalla legge 106/2004 come «documenti diffusi tra-
mite rete informatica»), l’ingresso nella conservazione a lungo termine attraverso i
Magazzini digitali almeno anche alle opere libere da diritti conservate in bibliote-
che digitali. Le archiviazioni web – che spesso si presentano come autoarchiviazio-
ni – possibili con risorse quali arXiv o Internet archive, giusto per citarne due famo-
se, molto differenti tra loro e benemerite105, ovviamente non rispondono all’esigenza
di sistematicità e organicità che sono al cuore di una biblioteca digitale.
La sostenibilità dei progetti di Digital humanities si rivela di fondamentale impor-
tanza non tanto a breve quanto a medio-lungo termine: se i progetti hanno alti costi
di esercizio per i mezzi tecnici (licenze, spazio in server farm, e così via) e/o per le com-
petenze di personale (ad esempio il ruolo chiave di un partecipante), la chiusura dei
finanziamenti al termine del progetto (o l’abbandono del progetto da parte di una
persona molto qualificata!) possono ridurre pressoché a zero le attività del progetto
che non può più svilupparsi. Questo aspetto evidenzia forse meglio di altri la carat-
teristica di ricerca avanzata che è propria delle Digital humanities: i suoi modi e pro-
cedure non sono (ancora) così diffusi, noti, condivisi, da potersi reggere senza gran-
di sforzi molto consapevoli e molto focalizzati. D’altra parte se si tiene conto che
ciò che le DH hanno da offrire […] è un patrimonio di pratiche e ragionamen-
ti che potrebbero trasformare la progettualità nata nell’alveo di una disciplina
tradizionale in nuove domande di ricerca, arrivando potenzialmente a rag-
giungere risultati non preventivati e non altrimenti determinabili. Se volessi-
mo riassumere una visione del ruolo delle DH, sicuramente la prospettiva di
svelare l’inaspettato e far emergere il non conosciuto rappresenterebbe l’o-
biettivo forte di questo àmbito di ricerca
106
se ne può concludere che la sostenibilità non può essere un criterio dirimente: pro-
getti molto sostenibili potrebbero non riuscire a «svelare l’inaspettato e a far emerge-
re il non conosciuto» perché probabilmente non si azzarderebbero a inoltrarsi nelle
‘zone rischiose’ che richiedono competenze poco diffuse, metodologie complesse,
mezzi tecnici non ordinari. Ma in ogni caso, giunto il termine del progetto, permane
la necessità che ciò che esso ha prodotto (dati e output) sia conservato, catalogato e
reso accessibile – necessità in funzione della quale è fondamentale la figura del data
librarian che fin dall’inizio sia parte del progetto per vigilare e operare affinché i dati
e gli output siano progettati e gestiti nel miglior modo possibile in considerazione
delle esigenze presenti, del progetto stesso, e future di accessibilità e diffusione.
Un altro possibile tipo di collaborazione tra biblioteche e Digital humanities è quel-
lo di iniziative condivise su specifiche linee di azione che evidenziano l’utilità e neces-
intersezioni 219
105 «One half was setting web crawlers upon NOAA web pages that could be easily copied and sent to
the Internet Archive.» (Zoë Schlanger, Rogue scientists race to save climate data from Trump, «Wired»,
19 gennaio 2017, ).
Ricordiamo questa vicenda dei climatologi americani (che nell’imminenza dei tagli decisi dall’ammini-
strazione Trump alle loro attività, con conseguente impossibilità di continuare a pagare gli spazi in cloud,
salvavano (spostavano) su Internet archive una parte dei dati) perché essa mostra bene che le azioni di
salvataggio dei dati sono risposte a condizioni complesse e imprevedibili: a volte si può pianificare a
medio-lungo termine, a volte si è costretti ad agire nel brevissimo termine senza pianificazione.
106 M. Daquino; F. Tomasi, Digital humanities e library and information science cit., p.131.
sità delle competenze di area Library and information science nello sviluppo e gestione
di progetti di Digital humanities, come hanno scritto Schaffner ed Erway proprio in
un report realizzato per OCLC sulla relazione tra biblioteche e Digital humanities:
There are many ways to respond to the needs of digital humanists, and a digi-
tal humanities (DH) center is appropriate in relatively few circumstances. Library
leadership can choose from a range of possible directions:
- package existing services as a “virtual DH center”
- advocate coordinated DH support across the institution
- help scholars plan for preservation needs
- extend the institutional repository to accommodate DH digital objects
- work internationally to spur co-investment in DH across institutions
- create avenues for scholarly use and enhancement of metadata
- consult DH scholars at the beginning of digitization projects
- get involved in DH project planning for sustainability from the beginning
- commit to a DH center.
A DH center does not always meet the needs of DH researchers. When warrant-
ed, a DH center is not necessarily best located in the library. Library culture may
need to evolve in order for librarians to be seen as effective DH partners
107
.
L’aspetto più interessante di questo quadro è probabilmente nella frase iniziale del
passo citato. L’articolo ha per titolo la domanda: Does every research library need a digi-
tal humanities center? alla quale in sostanza gli autori rispondono là dove scrivono
«a digital humanities center is appropriate in relatively few circumstances», a dire
che secondo loro specifiche azioni pertinenti sono generalmente più appropriate di
pianificazioni progettuali e istituzionali complesse come sarebbero quelle necessa-
rie per dar vita ad un centro di Digital humanities (sullo sfondo c’è anche la discus-
sione sulla questione complicata, in parte filosofica in parte economica, su quali
siano le ragioni d’essere di un centro di Digital humanities, come mantenerlo in vita,
se abbia una durata prevedibile ecc.)108. E dunque le loro proposte delineano una
progressione di complessità crescente, dal reinterpretare i servizi esistenti in biblio-
teca («package existing services as a “virtual DH center”») fino, certo, anche a crea-
re un centro di Digital humanities («commit to a DH center»), passando per azioni di
collegamento rivolte agli studiosi («help scholars plan for preservation needs»; «con-
sult DH scholars at the beginning of digitization projects»), altre rivolte verso le isti-
tuzioni («advocate coordinated DH support across the institution»; «extend the insti-
tutional repository to accommodate DH digital objects») e altre ancora che mettono
intersezioni220
107 J. Schaffner; R. Erway, Does every research library need a digital humanities center? cit., p. 5.
108 Giusto a titolo di esempio si può menzionare il dibattito in RRCHNM20: the future of digital humanities
centers – Roy Rosenzweig center for history and new media, [2014], con interventi di Edward Ayers (President, University of
Richmond), Bethany Nowviskie (Director of Digital Research & Scholarship at the University of Virginia
Library), Brett Bobley, (Office of Digital Humanities, National Endowment for the Humanities), Stephen
Robertson (Director, Roy Rosenzweig Center for History and New Media); oppure ricordare Ying Zhang;
Shu Liu; Emilee Mathews, Convergence of digital humanities and digital libraries, «Library manage-
ment», 36 (2015), n. 4-5, p. 362-377, DOI: 10.1108/LM-09-2014-0116, che scrivono «DH remains uncer-
tain about how to ensure successful projects with long-lasting impact».
in gioco competenze specifiche a livello locale e internazionale («get involved in DH
project planning for sustainability from the beginning»; «create avenues for scho-
larly use and enhancement of metadata»; «work internationally to spur co-invest-
ment in DH across institutions»). Essendo sostanzialmente scomparsi i finanzia-
menti pubblici e privati per progetti centrati sulle collezioni, le linee di azione suggerite
da Schaffner ed Erway si collocano bene nella situazione presente perché conten-
gono o implicano – in vari modi e misure – una componente infrastrutturale su cui
i finanziamenti sono ancora possibili.
Conclusione
Le fonti menzionate nel discorso sin qui sviluppato sono, come si è visto, in buon
numero straniere e questo potrebbe in qualche modo giustificare l’osservazione che
i modelli biblioteconomici proposti in Italia nella letteratura, con riferimento
alla biblioteca pubblica, sono in parte derivati da esperienze realizzate all’este-
ro e si rivelano, quindi, poco adatti a descrivere la realtà fenomenica delle biblio-
teche italiane
109
osservazione indiscutibilmente fondata in termini metodologici perché non c’è dub-
bio che la replicabilità delle esperienze e dei modelli è condizionata dalle differen-
ze delle culture e dei contesti giuridico-amministrativi. In questo articolo peraltro
(in cui il focus del discorso sono le biblioteche di ricerca) le esperienze straniere sono
riportate come catalizzatori di riflessione e non come modelli da attuare pedisse-
quamente ed è stata mostrata la connessione di fondo tra l’informatica umanistica
italiana nata su, e tutt’ora fortemente connessa con, gli studi testuali e una propo-
sta di posizionamento forte delle biblioteche nell’universo delle attività connesse
con le fonti digitali (digitalizzazione, conservazione, catalogazione, distribuzione
ecc.) di cui lo SHARE catalogue, i Magazzini digitali, il PAD, sono punti di riferimento.
Senza dimenticare che il mondo italiano delle Digital humanities al di là delle sue
specificità costitutive e in atto, è strettamente interconnesso con le esperienze e la
riflessione nel resto del mondo che parla inglese, e che molte e molti digital huma-
nists italiane e italiani che lavorano all’estero creano un’osmosi continua tra Italia,
Europa e resto del mondo.
Nello specifico dei contenuti, è evidente che concepire e delineare la relazione
tra Library and information science e Digital humanities (il che significa poi, in con-
creto, tra bibliotecari e digital humanists, gli umanisti informatici) secondo le linee
esposte nelle pagine precedenti non è banale, in quanto richiede a entrambe le parti
una forte evoluzione per di più in tempi in cui le risorse sono scarse e in calo110. I digi-
tal humanists di solito non cercano l’aiuto delle biblioteche e lavorano per loro conto
sulle fonti, anche perché spesso lottano per imparare a usare nuovi strumenti e a
intersezioni 221
109 Anna Galluzzi; Alberto Salarelli, Dialogando sui modelli, «Biblioteche oggi trends», 4 (2018), n.
1, p. 8-9.
110 «Yet despite this ongoing engagement, libraries are often unsure how they should respond as DH
attracts more and more practitioners and its definition evolves to cover an everexpanding range of
techniques and methods» (Stewart Varner; Patricia Hswe, Special report: digital humanities in libraries,
«American libraries magazine», gennaio 2016, ).
mettere a punto i metodi; ma operando insieme bibliotecari e digital humanists si
potranno riappropriare della responsabilità e della pratica del percorso produttivo
che nel digitale sembra spesso remoto e impossibile da gestire («sembra» perché certo
così si presentano le cose nell’ordinario, ma ciò non significa che sia impossibile ope-
rare in modo differente).
Il primo spazio di relazione e di collaborazione è lo scriptorium digitale, la biblio-
teca che accoglie attività di digitalizzazione fino a diventarne eventualmente un cen-
tro. Ne abbiamo parlato qui in relazione agli studiosi, ma si applica comunque anche
ad essi il discorso sui learning commons (che di per sé è orientato, per il focus sull’ap-
prendimento, agli studenti; ma caratterizza le Digital humanities il fatto che studioso
e studente sono nella medesima condizione di scoperta nell’apprendimento):
putting the learner at the center of library space planning is a return to the first par-
adigm, with the critical differences that information is now superabundant rather
than scarce and now increasingly resident in virtual rather than in physical space.
Nei learning commons – a differenza degli information commons – la conoscen-
za non è solo fruita: questi centri, infatti, sono progettati per stimolare la
creazione di nuova conoscenza: the learning commons more readily reflects
the understanding that students, as learners, are not merely information con-
sumers but actively participate with information in order to create meaning-
ful knowledge and wisdom
111
.
Il secondo spazio di collaborazione è la gestione dei contenuti nelle forme consue-
te per le biblioteche (catalogazione, conservazione, accesso ecc.) che si può confi-
gurare o nella linea complessa esemplificata dallo SHARE catalogue, o nella linea
agile di una biblioteca digitale come l’OTA (dove complesso e agile rimandano alle
strutture tecnologico-informative-informatiche soggiacenti), o nella linea della defi-
nizione di protocolli per la gestione dei fondi bibliotecari ed epistolari di studiosi
contemporanei che in varia misura, anche se non prioritaria, hanno operato nel
mondo digitale o con strumenti digitali, iniziata da PAD.
Il terzo ambito sono le attività collaborative suggerite da Schaffner ed Erway che vedo-
no i bibliotecari contribuire con le loro competenze nei contesti in cui si definisce e si svi-
luppa la ricerca delle Digital humanities che rileggono e reinterpretano nella contempo-
raneità la più antica funzione della biblioteca cioè l’organizzazione della conoscenza:
Of all scholarly pursuits, Digital Humanities most clearly represents the spirit
that animated the ancient foundations at Alexandria, Pergamum, and Mem-
phis, the great monastic libraries of the Middle Ages, and even the first research
libraries of the German Enlightenment. It is obsessed with varieties of repre-
sentation, the organization of knowledge, the technology of communication
and dissemination, and the production of useful tools for scholarly inquiry
112
intersezioni222
111 Maria Cassella, Terza missione e modelli biblioteconomici: come evolve il profilo della bibliote-
ca accademica. In: La biblioteca che cresce: contenuti e servizi tra frammentazione e integrazione cit.,
p. 112-118; le due citazioni sono da Scott Bennett, Libraries and learning: a history of paradigm chan-
ge, «Portal: libraries and the academy», 9 (2009), n. 2, p. 187.
112 Stephen Ramsay, Care of the Soul, «Literatura mundana», 8 ottobre 2010, . I link originari alla fonte sono persi
e permane solo quello offerto dall’Internet archive.
nel quadro di una relazione ininterrotta tra gli umanisti e le biblioteche:
It is in libraries that humanists have always found their basic and essential
instrumentation. Libraries can be described as the humanist’s lab. Obviously,
this applies also to digital humanists, who deal with digital objects for research
purposes, and to digital libraries that store collections in digital form
113
.
Articolo proposto il 16 gennaio 2019 e accettato il 23 luglio 2019.
ABSTRACT
aib studi, 59 n. 1-2 (gennaio/agosto 2019), p. 185-223. DOI 10.2426/aibstudi-11862
ISSN: 2280-9112, E-ISSN:2239-6152
MAURIZIO LANA, Università degli studi del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”, Dipartimento di
studi umanistici, Vercelli, e-mail maurizio.lana@uniupo.it.
Digital humanities e biblioteche
Gli inizi delle Digital humanities sono complessi da delineare ma comunque connessi con l'utilizzo di
biblioteche esistenti (nel Medioevo o nell’Ottocento) o con la creazione di nuove biblioteche sul finire
del secolo scorso, nei progetti dell'Index Thomisticus, dei Computer assisted tools for Septuagint
studies, del Thesaurus linguae Graecae.
L'impronta metodologica di fondo, attraverso questo inizio multitemporale e multicentrico, è lo studio
dei testi attorno al quale si incontrano discipline molto differenti e anche apparentemente lontane. Nel
contesto internazionale questa impronta pur presente viene messa in discussione in quanto sarebbe
escludente rispetto a una varietà di temi il cui orizzonte va dai cultural studies, ai media studies,
all'inclusione geopolitica del Sud del mondo.
La situazione italiana, anche attraverso l'AIUCD, l'Associazione di informatica umanistica e cultura
digitale, si caratterizza invece per la capacità di riconoscere in forme costantemente rinnovate la capacità
vitale del testo e della testualità di costituire il connettivo di una varietà di contenuti e contesti.
Digital humanities and libraries
The beginnings of Digital humanities are complex to delineate but in any case connected with the use
of existing libraries (in the Middle Ages or in the 19th century) or with the creation of new libraries at
the end of the last century, in the projects of the Index Thomisticus, of Computer assisted tools for
Septuagint studies, of the Thesaurus linguae Graecae.
The basic methodological imprint, through this multi-temporal and multi-center start, is the study of
the texts around which very different disciplines even apparently (or really) distant get in touch with
each other. In the international context, this imprint is questioned as it would be exclusionary with
respect to a variety of subjects whose horizon ranges from cultural studies, to media studies, to the
geopolitical inclusion of the South of the world.
The Italian situation, also through AIUCD, the Association of informatica umanistica and digital culture,
is characterized instead by the ability to recognize in constantly renewed forms the vital capacity of text
and textuality to constitute the connective of a variety of contents and contexts.
intersezioni 223
113 Dino Buzzetti, Where do humanities computing and digital libraries meet? In: Digital libraries and archives:
8th Italian Research Conference, IRCDL 2012, Bari, Italy, February 9-10, 2012: revised selected papers, Maris-
tella Agosti [et al.] (eds). Berlin, Heidelberg: Springer, 2013, p. 4, DOI: 10.1007/978-3-642-35834-0_2.