Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia e il liber mortis di Dante Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia e il liber mortis di Dante Mattia Mantovani Dante Studies, Volume 135, 2017, pp. 31-73 (Article) Published by Johns Hopkins University Press DOI: For additional information about this article [ Access provided at 6 Apr 2021 02:01 GMT from Carnegie Mellon University ] https://doi.org/10.1353/das.2017.0001 https://muse.jhu.edu/article/686852 https://doi.org/10.1353/das.2017.0001 https://muse.jhu.edu/article/686852 Vol. 135:31–73 © 2017 Dante Society of America Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia e il liber mortis di Dante Mattia Mantovani He came to speak to business men and he would speak to them in a businesslike way. If he might use the metaphor, he said, he was their spiritual accountant; and he wished each and every one of his hearers to open his books, the books of his spiritual life, and see if they tallied accurately with conscience . . . But one thing only, he said, he would ask of his hearers. And that was: to be straight and manly with God. If their accounts tallied in every point to say: “Well, I have verified my accounts. I find all well”. But if, as might happen, there were some discrepancies, to admit the truth, to be frank and say like a man: “Well, I have looked into my accounts. I find this wrong and this wrong. But, with God’s grace, I will rectify this and this. I will set right my accounts”. Joyce, Grace Giunto nel cielo di Giove, nel canto XIX del Paradiso Dante assi-ste al grandioso spettacolo dell’Aquila, emblema della giustizia divina e terrena. Gli “spirti beati” si dispongono inizialmente in modo da disegnare il primo versetto della Sapienza, “diligite iusti- tiam qui iudicatis in terram” (che è anche, con l’Apocalisse, il modello dell’episodio), per sciamare e raccogliersi quindi intorno all’ultima let- tera, fino a formare “la bella immagine.” All’Aquila composta da questi spiriti Dante pone una domanda che lo assillava da tempo, “il gran digiuno, / che lungamente m’ha tenuto in fame” (vv. 25–26): la vera 32 Dante Studies 135, 2017 natura della giustizia, se fosse davvero legittimo condannare chi era stato virtuoso soltanto perché non aveva mai conosciuto la Rivelazione. Se i non credenti potessero o meno salvarsi era in effetti una delle questioni più dibattute tra il XIII e il XIV secolo, quando la discussione dilagò dai commenti alla 25a distinzione del libro III delle Sententiae di Pietro Lombardo alle piazze. La risposta dell’Aquila si snoda lentamente nella forma della determinatio magistralis fino a quando le domande di Dante non vengono messe brutalmente a tacere, come già era avvenuto con Giobbe: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?” (vv. 79–81).1 L’accusa rivolta a Dante è quella di superbia—di “follia”—ché non può pretendere, lui mortale, di ergersi “in sedia come iudice” davanti a Dio, per quanto l’Aquila riconosca che agli occhi umani la parzialità della Rivelazione non possa apparire che arbitraria, per non dire assur- da.2 L’Aquila proclama che soltanto alla luce di questa Rivelazione le ingiustizie apparenti e inconcepibili che tormentano gli uomini (di cui la dannazione di chi non ha colpe non è che un esempio, per quanto eclatante) possono sperare di acquistare un senso: l’Aquila-Giustizia concede difatti che “a colui che meco s’assottiglia, / se la Scrittura sovra voi non fosse, / da dubitar sarebbe a maraviglia” (vv. 82–84). L’Aquila, però, è ferma: soltanto chi ha creduto in Cristo, “vel pria, vel poi ch’El si chiavasse al legno” (v. 105) può sperare nella salvezza. L’episodio del troiano Rifeo che risplende tra gli spiriti sommamente giusti nel canto successivo non mira ad allentare o magari persino a infrangere questa norma, ma soltanto a ribadire, ancora una volta, l’imperscrutabilità assoluta della Grazia divina.3 La domanda di Dante è destinata pertanto a rimanere senza risposta, dato che la ragione non potrà mai venire a capo, da sola, di una “quistione impossibile” come quella della predestinazio- ne (per usare le parole di Giordano da Pisa).4 Al giudizio tutto umano e fallace di “donna Berta e ser Martino,” l’Aquila oppone il Giudizio finale, divino, quando saranno proprio i virtuosi non battezzati a con- dannare i credenti peccatori: “Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’ / che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo; // e tai Cristian dannerà l’Etïòpe, / quando si partiranno i due collegi, / l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe” (vv. 106–11).5 I pagani virtuosi, esemplificati qui dai Persiani, saranno poi partico- larmente duri con i re cristiani, rinfacciando loro le numerose colpe (“i dispregi”) di cui si sono macchiati in vita, tutte puntualmente registrate 33 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani in un non meglio precisato “volume aperto.” Il canto si chiude quindi con una durissima requisitoria in cui Dante, per bocca dell’Aquila, stigmatizza con asprezza i sovrani del suo tempo: Che poran dir li Perse a’ vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? [114] . . . Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un ‘i’ la sua bontate, quando ’l contrario segnerà un ‘emme’. [129] Vedrassi l’avarizia e la viltate di quei che guarda l’isola del foco, ove Anchise finì la lunga etate; [132] e, a dare ad intender quanto è poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. [135] E parranno a ciascun l’opere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze.6 [138] A enumerare gli scarsi meriti di Carlo II d’Angiò nel “volume aper- to,” denuncia l’Aquila, sarà sufficiente un misero ‘i’, dato che Dante fatica a pensare che il “Ciotto di Gerusalemme” possa aver compiuto più di una singola azione degna di lode (nel sistema numerico romano, ‘i’ vale per l’appunto uno), mentre i suoi misfatti ammonteranno a miglia- ia: “quando ‘l contrario segnerà un ‘emme’.” “L’avarizia e la viltate” di Federico III di Sicilia (“quei che guarda l’isola del foco”) saranno invece registrate con delle non meglio precisate “lettere mozze, / che noteran- no molto in parvo loco.” L’espressione affanna da secoli i commentatori, senza che nessuno sia però ancora riuscito a darne un’interpretazione pienamente convincente. Lo scopo di questo saggio è proprio quello di chiarire questo sintagma e, più in generale, le due terzine di Paradiso XIX dedicate a Federico d’Aragona. L’esegesi di questi versi permetterà quindi di rileggere con nuovi occhi la sezione conclusiva del canto e, più in 34 Dante Studies 135, 2017 particolare, di restituire al “volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi”—quelli dei sovrani europei—la sua piena densità meta- forica, grazie alla scoperta dei modelli e delle fonti di questo libro: il liber mortis di Dante. §1. “Vedrassi l’avarizia e la viltade / di quei che guarda l’isola del foco” La questione dei rapporti tra Dante e Federico III di Sicilia sembrereb- be di primo acchito di facilissima soluzione, dato che Dante pare non aver perso occasione per criticarne l’operato. A complicarla è pressoché soltanto la famigerata epistola di frate Ilaro, stando alla quale Dante avrebbe pianificato di dedicare proprio a questo sovrano la terza cantica del poema.7 L’attendibilità di questa lettera, che vocifera di un primo tentativo, presto abortito, di scrivere la Commedia in latino, è tuttavia fortemente dibattuta dagli studiosi.8 I giudizi espressi da Dante a propo- sito del re di Sicilia nel De vulgari eloquentia, nel Convivio e nella Commedia sono difatti tutt’altro che benevoli.9 Federico III è inoltre condannato a Purgatorio VII 112–120 come un indegno successore del padre, Pietro III, e la contrapposizione con i suoi predecessori virtuosi continua anche nella cantica successiva. Quest’ultima condanna, che si legge a Paradiso XX 61–63, ribadisce e accentua la dura requisitoria del canto imme- diatamente precedente (da cui sono tratte le nostre terzine), sicché pare davvero difficile credere che Dante volesse dedicare l’ultima cantica del poema a quel Federico di Sicilia che si rivela piuttosto come uno dei più esecrati bersagli polemici di così tante sue opere. Federico III di Sicilia accese senza dubbio molte speranze nei ghibel- lini toscani quando decise di schierarsi a fianco di Enrico VII di Lus- semburgo, il quale gli offriva un’alleanza contro Roberto d’Angiò. Non tardò tuttavia molto a deluderle: alla morte improvvisa di Enrico (il 24 agosto 1313), Federico rifiutò difatti di continuare l’impresa imperiale nonostante le insistenze e le profferte dei Pisani, e si affrettò piuttosto a fare ritorno in Sicilia, minacciata allora dagli Angioini, lasciando così i ghibellini toscani in una situazione di enorme difficoltà.10 Per quanto non sia del tutto impossibile che Dante, alla notizia dell’alleanza tra Enrico VII e Federico III, preferisse accantonare il disprezzo che nutri- va da anni nei suoi confronti, cui pure aveva dato voce in così tante 35 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani occasioni, e arrivasse fino al punto di accarezzare l’idea di dedicargli il Paradiso, l’ipotesi è grandemente improbabile.11 Così come è ancora più improbabile che Dante ne parlasse a un frate sconosciuto incontrato per caso durante un viaggio: il frate Ilaro dell’epistola, per l’appunto, il quale avrebbe avuto l’eccezionale ventura di parlare con Dante proprio in quei pochissimi mesi a mezzo tra la malcerta riabilitazione di Federico e il definitivo disinganno di Dante. Uguccione della Faggiola, il presunto destinatario della prima can- tica, è inoltre celebrato nella lettera di frate Ilaro, come “inter Ytalicos proceres quam plurimum preminens”, e gli studiosi ritengono quindi, concordi, che la dedica (chiunque ne sia l’autore) sia stata vergata dopo la nomina di Uguccione a signore di Pisa, il 20 settembre 1313. Se non che questo titolo fu offerto a Uguccione proprio in seguito al rifiuto da parte di Federico III di Sicilia, quello stesso rifiuto che dovette scredi- tarlo senza appello agli occhi di Dante e che gli valse la taccia di “vil- tade” a Paradiso XIX 130.12 La dedica dell’Inferno a Uguccione, capo dei ghibellini italiani, e quella del Paradiso a Federico III sembrano quindi contraddirsi a vicenda, andando così a rafforzare l’argomento degli stu- diosi che si erano fatti forza dell’implausibilissima dedica a Federico di Sicilia per attaccare l’attendibilità dell’epistola.13 A darle una qualche vaga parvenza di verosimiglianza sarebbe soltan- to un passo di Purgatorio III, dove Manfredi si riferisce alla figlia Costan- za come alla “genitrice / de l’onor di Cicilia e d’Aragona” (vv. 115–16), andando così ad ammantare i nipoti Giacomo e Federico d’Aragona—in apparenza perlomeno—di una patina di onorabilità e di nobiltà in forte contrasto con le accuse di pusillanimità e di pochezza che attraversano il poema. Ancora prima di aver abbandonato l’Antipurgatorio Dante lamenterà difatti che, del padre Guglielmo, “Iacomo e Federigo hanno i reami; / del retaggio miglior nessun possiede” (Purg. VII 119–20). È stato tuttavia correttamente osservato che “onor” potrebbe essere privo di qualsiasi connotazione encomiastica, non stando a indicare altro che la carica rivestita da Federico di Sicilia: una nobiltà tutta “di sangue,” insomma, anziché d’animo.14 Anche a voler concedere a “onor” il secon- do significato, il tono benevolo del verso sarebbe quindi da imputare soltanto all’orgoglio di Manfredi per il nipote, e non certo alle con- vinzioni politiche di Dante poeta al momento della scrittura del canto. A ben guardare, non è inoltre nemmeno scontato che, con “l’onor di Cicilia e d’Aragona,” Manfredi si riferisse a entrambi i nipoti.15 Il 36 Dante Studies 135, 2017 titolo di “Re di Sicilia” spettava difatti di diritto al solo Giacomo il quale, subentrato allo zio paterno Alfonso III sul trono d’Aragona, lasciò il fratello quale semplice governatore dell’isola (1291). Federico entrò però in crescente contrasto con il fratello, rivendicando per sé la completa signoria dell’isola. Alla notizia del Trattato di Anagni (20 luglio 1295), che prevedeva la restituzione della Sicilia—riconosciuta quale “terra Ecclesie”—a Bonifacio VIII, Federico colse l’occasione per farsi proclamare re di Sicilia dal Parlamento siciliano (15 gennaio 1296). Sebbene non fosse che il secondo del suo nome in quella dina- stia, prese per sé il nome di Fredericus tercius (da cui le ambiguità sul titolo che si intravedono talvolta in alcuni commenti alla Commedia), presentandosi in tal modo come l’ideale continuatore della casata sve- va e il “terzo Federico” di cui parlavano le profezie. Le tumultuose vicende degli anni successivi, che portarono alla pace di Caltabellotta (31 agosto 1302) e alla partecipazione alle imprese imperiali, videro Federico in scontro pressoché permanente con gli Angioini e con il papato—così come, in un primo momento perlomeno, con il fratello Giacomo—non soltanto per il possesso effettivo dell’isola (e, più in generale, dell’intera Italia meridionale), ma per la definizione stessa del proprio titolo di sovrano, il quale gli fu variamente contestato, conteso, revocato, barattato quasi, per essergli riconosciuto in via definitiva soltanto al termine di estenuanti campagne militari e diplo- matiche.16 Dante avrebbe potuto pertanto mancare di riconoscere a Federico d’Aragona il titolo di re di Sicilia, fosse questa (come pare estremamente probabile) la situazione storica effettiva nel momento in cui andava scrivendo queste terzine o volesse piuttosto contestare a Federico la legittimità della sua signoria sull’isola, ricordando a tutti i suoi lettori che questi non era poi—in origine, perlomeno—che il vicario generale del Regno in qualità di luogotenente del fratel- lo Giacomo, il quale sarebbe pertanto, lui solo, “l’onor di Cicilia e d’Aragona” di cui parla Manfredi. Paradiso XIX sembra confortare questa lettura: nelle terzine sotto esame Federico d’Aragona è infatti indicato da Dante come “quei che guarda l’isola del foco” (v. 131), un verbo che non significa affatto “governa,” “regge” ma, piuttosto “tiene in custodia,” come testimoniato da numerosi altri passi del poema, quale ad esempio—per rimanere nella terza cantica—Paradiso XVI 145–46: “quella pietra scema / che guarda ’l ponte.” È stato persino ipotizzato che a Paradiso XIX Dante si stesse rifacendo alla formula 37 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani utilizzata da Bonifacio VIII per indicare le mansioni di Federico d’Aragona: “garder l’isle.”17 Le terzine di Paradiso XIX esprimono ad ogni modo un giudizio durissimo e inequivocabile su Federico III d’Aragona, accusato di ava- rizia e di viltà per aver abbandonato l’impresa ghibellina, continuata invece da Cangrande della Scala nonostante la morte intempestiva di Enrico VII.18 Dante non si degna nemmeno di nominarlo direttamente, tanto grande è il suo disprezzo, ma si riferisce a Federico tramite una perifrasi (“quei che guarda l’isola del foco, / ove Anchise finì la lunga etate”; vv. 131–32), come già per gli altri sovrani del canto: “quel di Portogallo e di Norvegia . . . e quel di Rascia,” “di quel di Spagna e di quel di Boemme” (vv. 139–40, 125).19 Sarebbe tuttavia un errore prendere questi versi per una mera circonlocuzione esornativa, per non dire una zeppa: il richiamo ad Anchise mira difatti a porre in risalto ancora maggiore la “viltade” delle scelte politiche di Federico III per contrapposizione alle peregrinazioni eroiche di Enea, il quale, alla morte del padre, non si trattenne “sanza gloria” in Sicilia ma proseguì il suo viaggio fino a Roma e alla fondazione dell’Impero.20 La perifrasi con cui Dante apostrofa Federico d’Aragona ha pertanto la stessa intenzione denigratoria del riferimento a Carlo II d’Angiò, il “Ciotto [lo Zoppo] di Gerusalemme,” nella terzina immediatamente precedente, del “bestia” (v. 147) per Enrico II di Lusignano o quella del verso, feroce, con cui Dante indica Filippo il Bello – morto per una caduta a cavallo durante una battuta di caccia al cinghiale – come “quel che morrà di colpo di cotenna” (v. 120). §2. “E, a dare ad intender quanto è poco, . . .” La prima delle terzine di Paradiso XIX dedicate a Federico d’Aragona (vv. 130–32) risulta pertanto chiara e di facile comprensione, ché a intenderla pienamente è sufficiente saper leggere nell’accusa di “viltade” un riferimento ai fatti occorsi a Pisa dopo la morte di Enrico VII nella tarda estate del 1313, e prestare quindi attenzione al valore estremamen- te preciso di quel “guarda” e al confronto polemico tra Federico III ed Enea. La terzina successiva è invece una vera e propria croce interpre- tativa, sia per quanto riguarda la struttura del periodo, piuttosto opaca, che per il significato esatto da dare ai singoli termini. 38 Dante Studies 135, 2017 I primissimi commentatori della Commedia leggevano “a dare ad intender quanto è poco / la sua scrittura” come un enjambement, sebbene finissero poi per darne interpretazioni discordi. L’autore dell’Ottimo Commento pensava difatti che questi versi parlassero degli scarsi meriti che potevano essere riconosciuti a Federico (“e più aggrava la riprensio- ne dicendo, che quello che si iscriverà in sua laude e fama, fia con lettere mozze, e poco, e in poca carta”), mentre Jacopo della Lana li riferiva piuttosto alle sue colpe: “Cioè che poca scrittura seconda quella del detto re Federigo e del figliuolo, ma rileva molto e in avarizia e in vilitade.”21 Benvenuto da Imola mostrò quindi le difficoltà della prima lettura e precisò il senso della seconda, da lui preferita: Et subdit ad cumulum maioris verecundiae: e fien lettere mozze, scilicet, singulae pro partibus, che noteranno molto, scilicet suorum vitiorum, in parvo loco, idest, in modico spatio chartae; et hoc a dar ad intender quanto è poco la sua scrittura, scilicet, per contrarium, quia multa mala dici possunt de eo in paucis verbis. Vel intelligas simpliciter, quod pauca scriptura potest fieri de eo, quia habet paucas virtutes, quae possunt notari per paucas literas truncas, scilicet I, quod importat unum, ut jam dictum est paullo supra. Sed prima expositio videtur melior, quia litera dicit: che noteranno molto; et ita non videtur posse pati talem intellectum. La lettura dell’Ottimo Commento non è infatti in grado di spiegare perché i pochi segni utilizzati per registrare le poche virtù di Federico dovrebbero “notare molto.” L’unica soluzione sarebbe leggere l’intera terzina in chiave fortemente antifrastica, come in effetti farà poi Mat- talia, nel tentativo di ripristinare questa antica interpretazione.22 Ben- venuto da Imola preferì quindi adottare l’esegesi alternativa di Jacopo della Lana, cui conferì uno spessore e un’eleganza ancora maggiori, leggendo nei verso in questione un sottile sarcasmo, tutto giocato sul contrasto stridente tra i pochi caratteri utilizzati e la gravità delle colpe che sarebbero andate a denunciare. L’interpretazione di Benvenuto conobbe grande fortuna, per quanto travisata dall’imperizia di alcuni commentatori meno attenti e dalle lezioni discordi dei manoscritti.23 L’enjambement dei vv. 133–4 pare tuttavia di difficile lettura, con un inciso molto forte che prolunga la cesura e va contro la normale tenden- za di Dante a poggiare la struttura del periodo sull’intero endecasillabo e, quindi, sulla terzina. Già Pietro Alighieri aveva pertanto avanzato un’interpretazione più piana, la quale intendeva “poco” come un pre- dicativo del soggetto riferito a Federico, anziché alla “sua scrittura”: 39 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani “eius bonitas et virtus erat ita modica quod in licteris truncis a suis dictionibus modicum occupabunt in predicto libro.”24 Pietro seguiva l’errore dell’Ottimo, ma così facendo aveva corretto quello di tutti i primi commentatori, Benvenuto compreso. La lezione di Pietro, mar- ginale, fu ripresa da Francesco da Buti, che arrivò così, finalmente, alla corretta interpretazione della terzina: Questi fu Federigo re di Sicilia, che fu avaro e vile. Et a dare ad intender quanto è poco; cioè lo peccato suo, cioè di don Federigo, La sua scrittura fien lettere mozze; cioè sarà sì grande, che converrà che si scriva con lettere mozze, che tegnano meno luogo e capene più, Che noteranno molto in parvo loco; cioè aranno grande importanzia e terranno poco luogo: imperò che male sarà assai.25 Il sommo peccato di Federico III è difatti la sua pusillanimità, la sua “viltade.” Al “poco” di Paradiso XIX 133 è pertanto da assegnare lo stesso valore aggettivale di Inferno XX 115: “quell’altro che ne’ fianchi è così poco.” Il fraintendimento di Benvenuto da Imola continuò tuttavia fino alla metà del XVI secolo, quando l’interpretazione di Francesco da Buti finì, da ultimo, per imporsi. Le glosse del Tasso, del tutto corret- tamente, chiosano difatti “è di poco valore,” e la stessa punteggiatura delle attuali edizioni si basa su questa interpretazione.26 Questa terzina pone tuttavia un ulteriore problema circa l’esatto valore della proposizione “a intender quanto è poco.” Tutti i commen- tatori moderni l’hanno intesa come una finale: al fine di rendere palese la pusillanimità di Federico III, la registrazione delle sue colpe (scrittura) sarà vergata con lettere mozze, così da poterla liquidare nel più breve spazio possibile (in parvo loco). Dio adotterebbe pertanto dei caratteri abbreviati pur di non dover indugiare su un animo così indegno, mosso da quello stesso sentimento di repulsione che aveva fatto cadere sugli ignavi il silenzio sdegnato di Dante.27 Il sarcasmo di questi versi risulta tanto più sferzante se si considera che Federico è l’unico sovrano, nella rassegna del canto, cui Dante abbia dedicato due terzine.28 L’unico difetto di queste lettura, pur così seducente, è di discostarsi non poco dal semplice significato letterale, come si può notare dalla semplice parafrasi. È tuttavia possibile avanzare un’interpretazione più agevole di questo periodo, che non costringa a supporre nessun signifi- cato implicito, leggendo “a intender quanto è poco” come una propo- sizione parentetica, anziché finale. Secondo questa esegesi alternativa Dio non ricorrerà pertanto alle lettere mozze con l’intento esplicito, e 40 Dante Studies 135, 2017 determinante, di rendere evidente la viltà di Federico III. In questo verso l’Aquila si rivolge piuttosto a Dante, e quindi a noi lettori, per invitarci a prestare attenzione alla scrittura particolarissima con cui saranno registrati i misfatti di Federico, che da sola ci permetterebbe di comprenderne la gravità.29 Si deve perciò aggiungere una seconda virgola dopo la e iniziale (forse persino una parentesi), e scrivere quindi il verso: “e, a dare a intender quanto è poco, / la sua scrittura . . .”.30 Quello che rimane ancora da comprendere è il significato da asse- gnare a queste lettere mozze, capaci di stipare in così poco spazio le colpe innumerevoli di Federico III di Sicilia. §3. “Lettere mozze” Il sintagma “lettere mozze” è difatti il luogo più oscuro di queste ter- zine, al punto che molti dei primi commentatori—tra cui Jacopo della Lana, l’autore dell’Ottimo Commento e Francesco da Buti—appa- rentemente incapaci di afferrarne il senso, evitarono semplicemente di chiosarlo (che lo trovassero ovvio e lampante pare difatti da escludere). Il termine “mozzo” compare in altri cinque casi nella Commedia, in tre dei quali in riferimento a una mutilazione fisica, con l’accezione di “reciso,” “amputato,” “monco”: “e un ch’avea l’una e l’altra man mozza, / levando i moncherin” (Inf. XXVIII 103–4), “e qual forato suo membro e qual mozzo” (19) o infine, in un contesto meno truculento: “col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi” (Inf. VII 57). Nelle altre due occorrenze ha un’accezione analoga, ma con traslazione di significato sul piano metaforico, venendo a indicare separazione—“Guarda che da me tu non sia mozzo!” (Purg. XVI 15)—e di qui privazione, impedimento: “quella voglia / a cui non puote il fin mai esser mozzo” (Inf. IX 94–5). La questione preliminare è comprendere se “mozze” indichi a Paradiso XIX 134 una peculiarità dei singoli caratteri grafici oppure qualifichi un particolare tipo di scrittura. Nel primo caso, considerando l’accezione più consueta di “mozzo,” si dovrebbe intendere che le numerose colpe di Federico III sarebbero trascritte con lettere smozzicate, private di alcune gambette, così da poterne ammassare un gran numero in pochissima carta; ma si tratta senza dubbio di una proposta interpretativa piuttosto inelegante e poco persuasiva. Salvo alcuni casi isolati,31 questa prima lettura è stata infatti rifiutata da tutti gli interpreti, che hanno invece 41 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani osservato come nell’italiano antico lettere non indicasse soltanto i singoli caratteri, ma una particolare forma di scrittura – in questo caso della “scrittura” del “volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi.”32 I rari commentatori antichi che avevano cercato di chiarire il passo confortano per di più questa seconda interpretazione. Pietro Alighieri, in particolare, portava come esempio di scrittura “troncata” la pratica di indicare un nome per mezzo della sola lettera iniziale: eius bonitas et virtus erat ita modica quod in licteris truncis a suis dictionibus modicum occupabunt in predicto libro, exemplo Boetii in describendo phylo- sophiam et ponendo pro hac dictione theorica solum hanc licteram T et pro pratica P.33 I commentatori odierni rimandano invece piuttosto alle abbrevia- zioni, frequenti nei manoscritti dell’epoca, oppure, anche se meno frequentemente, ad alcuni sistemi di stenografia e crittografia diffusi nel Medioevo.34 Benvenuto pare appoggiare questa lettura moderna, anche se è difficile comprendere il significato esatto del suo commento, che sembrerebbe tuttavia riferirsi a un sistema di abbreviazione in cui una singola lettera esprime un’intera sillaba: “lettere mozze, scilicet, singulae pro partibus.”35 A questa prima e criptica glossa ne segue una seconda, non meno oscura. Benvenuto da Imola, come si è visto sopra, discute con attenzione la proposta dell’Ottimo e cerca di leggere con nuovi occhi le “lettere mozze” in accordo a questa interpretazione, che finirà da ultimo per rifiutare. Quella che ne emerge è una spiegazione alter- nativa del sintagma, molto diversa dalla prima, adottata da Benvenuto e da quasi tutti i commentatori successivi: Vel intelligas simpliciter, quod pauca scriptura potest fieri de eo, quia habet paucas virtutes, quae possunt notari per paucas literas truncas, scilicet I, quod importat unum, ut jam dictum est paullo supra.36 Lo ‘i’ non sarebbe pertanto da intendere come una lictera trunca per- ché privata di una sua qualche componente grafica, ma solo in quanto carattere di un sistema di notazione simbolico in virtù del quale essa esprime l’unità, la significa (importat).37 Questo particolare sistema di notazione—e, di conseguenza, ognuno dei suoi caratteri—è “mozzo” in quanto permette di simboleggiare il concetto di unità, e di numero in genere, facendo a meno della sua dicitura completa, per rimpiazzarla 42 Dante Studies 135, 2017 invece con un segno convenzionale, più breve (che esso sia poi anche un lettera dell’alfabeto, non importa). Là dove la nostra attenzione va alla possibilità di assegnare un valore simbolico a un carattere e alle potenzialità, offerte da questo artificio espressivo, di maneggiare con pochi tratti di penna concetti molto complessi, Benvenuto—e quindi, in via ipotetica, lo stesso Dante—poneva piuttosto l’accento sul carattere sintetico del simbolo, così lacunoso rispetto alla sua denominazione per esteso. Ogni sistema di notazione in quanto tale, potrebbe quindi essere definito un caso di “lettere mozze,” di scrittura compendiaria, sintetica, simbolica. Al termine del suo commento Benvenuto rigettava tuttavia questa interpretazione, che aveva avanzato soltanto per fare luce sugli errori dell’Ottimo, e fu così che questa lettura alternativa divenne lettera morta sul nascere.38 Secondo questa lettura alternativa discussa da Benvenuto da Imola, la registrazione delle colpe di Federico III sarebbe così stata condotta anch’essa su base quantitativa, come già avvenuto per Carlo II, anziché qualitativa, ovverosia tramite la descrizione degli atti compiuti, come era nel caso di tutti gli altri sovrani: numerazione, quindi, piuttosto che enumerazione.39 Quest’interpretazione, così isolata e confutata sul nascere, rimase negletta per secoli (il che non stupisce affatto), fino a quando fu ripresa a metà ’800 da Pietro Fraticelli, il quale la sviluppò ulteriormente e ipotizzò quindi che Dante facesse allusione in questi versi a un sistema di notazione numerica più rapido degli stessi numerali romani che Dio adotterebbe (in via del tutto straordinaria), per liquidare nel minor tempo possibile un sovrano così vile, suggerendo quindi un climax rispetto allo stesso Carlo d’Angiò. Una notazione, vale a dire, che avrebbe permesso di dar conto in uno spazio ancora minore di quello richiesto dalla numerazione romana di tutti i misfatti di Federico di Sici- lia. Fraticelli, seguito poi da Brunone Bianchi, proponeva inoltre, anche se soltanto a titolo di esempio, che queste “lettere mozze” avrebbero potuto non essere poi altro che le “cifre arabiche.” Nel suo commento Fraticelli non si dilungava oltre e così anche questa interpretazione ottocentesca morì praticamente inascoltata.40 Quella della numerazione araba è in effetti una proposta suggestiva, che conferirebbe alle terzine una grande forza espressiva; manca però purtroppo di una giustificazio- ne testuale circostanziata, cosicché la cautela del critico—come anche la perplessità dei suoi lettori—sembra più che comprensibile. 43 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani §4. “Modus Indorum” e “figure mercantesche” Le cifre arabe fecero la loro comparsa in Europa con il Liber abaci di Leo- nardo Pisano, meglio noto come Fibonacci (circa 1170–1240), pubblica- to nel 1202 e rivisto quindi nel 1228. La dedica a Michele Scotto mostra i forti legami dell’autore con la corte di Federico II.41 Dei precedenti medievali non mette conto parlare, dato che si trattò sempre di episodi isolati e dotti, destinati a non avere nessun seguito o, ancora più spesso, di sistemi di calcolo che riprendevano i simboli della nuova notazione numerica ma finivano per fraintenderne o dimenticare del tutto il valore posizionale (come nel sistema degli apices di Gerberto). “Sed hoc totum etiam et algorismum atque arcus Pictagore quasi errorem computavi respectu modi Indorum”: cosí si apre, con chiara consapevolezza del proprio carattere innovativo, il prologo dell’opera di Fibonacci. Fibonacci fu infatti con buona probabilità il primo europeo a rendersi conto con chiarezza del significato e dell’utilità della notazione posizio- nale, di quello che chiamava il “modus Indorum.” Nel suo trattato, uno dei capolavori della matematica medievale, ne mostrava pressoché in ogni pagina le grandiose possibilità: dalle più complesse questioni arit- metiche, squisitamente teoriche, ai problemi di conversione delle unità di misura e di lega metallica che si ponevano ai mercanti dell’epoca. La formazione di Fibonacci era difatti avvenuta a stretto contatto con il mondo mercantile, dapprima a Bugia (Béjaïa), presso Algeri, dove il padre svolgeva le mansioni di publicus scriba. Leonardo, come ci infor- ma nel proemio del Liber abaci, viaggiò quindi l’intero Mediterraneo, dall’Egitto alla Siria, dalla Grecia alla Sicilia fino alla Provenza, e questa lunga serie di viaggi gli valse così l’epiteto di “Bigollone” (“viaggia- tore”) che campeggia accanto al nome proprio dell’autore negli incipit di alcune sue opere e in diversi documenti ufficiali. Quando si stabilì definitivamente a Pisa, intorno alla fine del secolo, il Comune si volle avvalere dell’enorme conoscenza matematica di cui si era impossessato nelle sue peregrinazioni e gli assegnò pertanto un importante incarico “in abbacandis estimationibus et rationibus”—nella gestione della con- tabilità pubblica, vale a dire, della quale si era in effetti già occupato nel terzo capitolo del Liber abaci.42 I mercanti toscani furono così i primi in Europa ad essere introdotti alla notazione araba, e a comprendere gli enormi vantaggi che offriva: accantonate tutte le questioni di matematica pura e di algebra, andarono 44 Dante Studies 135, 2017 a sviluppare invece i già numerosissimi esempi e casi pratici dell’opera di Fibonacci. Prima della fine del secolo già iniziavano a diffondersi i primi trattati d’abaco in volgare, e il nuovo sistema di contabilità contribuì in effetti grandemente alla supremazia in Europa dei mercanti toscani e, quindi, italiani.43 Il “modus Indorum” si affermò poi anche nelle con- tabilità dei cambiavalute e dei banchieri, seguendo le indicazioni del Liber abaci e la pratica effettiva di Fibonacci presso il Comune di Pisa. Il documento più lampante della crescente diffusione delle cifre ara- be nelle contabilità dei privati toscani è fornito con buona probabilità da uno statuto dell’Arte di Cambio di Firenze che intendeva proibirne l’utilizzo, promulgato originariamente nel 1299 e rinnovato per ben tre volte nel corso degli anni successivi, a chiara riprova della sua inefficacia: CII. Quod nullus de arte scribat in suo libro per abbacum. Item statutum et ordinatum est quod nullus de hac arte audeat vel permictat per se vel per alium scribere vel scribi facere in suo libro vel quaterno vel in aliqua parte eius, in quo vel quibus scribat data et accepta, aliquid quod per modum vel per licteram abbachi intelligatur, sed aperte et extense scribat per licteram. Facienti contra teneantur consules tollere nomine pene soldos viginti florenorum parvorum pro qualibet vice et pro qualibet scripta, et nicchilominus teneantur consules, si ad eorum manus pervenerit aliquid scriptum esse contra predicta vel aliquod predictorum, per se et eorum officium condempnare modo predicto. Et predicta locum habeant a medio mense aprelis sub annis Domini millesimo ducentesimo nonagesimo nono, yndicione doudecima, in antea, silicet de libris incipiendis scribi a medio mense aprelis in antea et pro rationibus que scribentur a medio mense aprelis in antea.44 Le ragioni di questo statuto son state più volte dibattute dagli studiosi, ma pare pressoché certo che il motivo fondamentale essere il timore di frodi fiscali, dettato dalla scarsa dimestichezza di alcuni membri dell’Arte del Cambio con la notazione araba—non di tutti, tuttavia, come dimo- strato proprio da questo statuto che cercava di combatterne la crescente diffusione. Le cifre arabe potevano inoltre essere alterate e contraffatte con facilità assai maggiore di quanto non fosse possibile con la notazione romana (per la quale erano stati invece escogitati ormai da tempo nume- rosi stratagemmi e regole di scrittura a questo preciso scopo) e tanto più con la scrittura alfabetica, l’unica che lo statuto si sentisse di autorizza- re. A ben guardare è proprio per ridurre il rischio di falsificazioni che ancor oggi si deve indicare in parole, e non soltanto in cifre, l’importo degli assegni.45 La necessità di ripetere questa stessa ingiunzione dopo 45 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani un anno soltanto, e poi di nuovo dopo un decennio, per ben due volte, mostra tuttavia come le cifre arabe fossero adottate da un numero sempre maggiore di contabili, a dispetto delle norme ufficiali. Il testo dello statuto pare tradire una certa estraneità al nuovo sistema di notazione: “aliquid quod per modum vel per licteram abbachi intel- ligatur” sembra difatti parlare di un tipo di scrittura del tutto incom- prensibile per chi scrive, “aliquid,” segni ammonticchiati in colonne che potevano essere decifrati soltanto da chi era già a conoscenza delle regole della nuova notazione. Le entrate e le uscite (data et accepta), ordina lo statuto, avrebbero dovuto pertanto essere registrate “aperte et extense . . . per licteram,” vale a dire secondo la tradizionale scrittura per esteso, completa, non compendiaria (extense), in modo da poter risultare pie- namente intelligibile (aperte) e scongiurare così il pericolo di frodi e di fraintendimenti. È impossibile capire se chi scriveva avesse afferrato il significato del valore posizionale della numerazione araba o se, del tutto ignaro, continuasse il lungo fraintendimento dell’alto Medioevo, che aveva adottato le cifre arabe come semplici abbreviazioni dei numerali romani, anche se tutto sembra spingere verso questa seconda interpre- tazione.46 L’espressione “aperte et extense per licteram” finì addirittura per imporsi come una locuzione canonica della legislazione in materia, tanto che ancora nel 1550 l’estensore di uno statuto bolognese che rical- cava da vicino quello fiorentino del 1299 la poteva utilizzare immutata, limitandosi a tradurla il più fedelmente possibile: Siano tenuti . . . nelle posta del debito e credito predetto, al meno nel suo giornale, scrivere distesamente e chiaramente per lettere d’alfabeto, e non per abaco, né per figure mercantesche . . . il numero peso o misura di quella cosa, per la quale egli lo fa debitore, o creditore.47 La seconda interpretazione delle lettere mozze discussa da Benvenu- to da Imola aveva già portato alla luce come la notazione numerica (romana) potesse essere intesa quale forma abbreviata della registrazione verbale, a parole, del numero delle colpe dei sovrani: “possunt notari per paucas literas truncas, scilicet I, quod importat unum.” Lo statuto del 1299 appena analizzato ci testimonia poi come la notazione araba delle nuove scuole d’abaco fosse vista anch’essa come una sorta di scrittura compendiaria, in contrapposizione alla tradizionale scrittura “estesa.” Il documento permette così di dimostrare l’ipotesi che Pietro Fraticelli 46 Dante Studies 135, 2017 aveva cautamente proposto facendo appello al suo solo intuito lingui- stico, e che proprio per questo fu del tutto ignorata dai commentatori successivi. Là dove Benvenuto da Imola e tutti i commentatori moderni scorgevano un generico riferimento ad una forma abbreviata e quanto mai imprecisata di scrittura, variamente identificata, lo statuto dell’Arte del Cambio ci permette così di comprendere con esattezza che cosa siano queste lettere mozze che dovranno registrare le colpe di Federico III di Sicilia: nient’altro che le cifre arabe. Per poter registrare l’importo di tutti i peccati di Federico III nel- la voce a lui destinata nel “volume aperto / nel qual si scrivon tutti i suoi dispregi”—è quindi questo il senso del vituperio di Dante—Dio si vedrà così costretto a ricorrere alla notazione araba. Persino quella romana, pure utilizzata per Carlo II d’Angiò, avrebbe difatti richiesto un dispendio di carta eccessivo per indicare il numero, così grande, delle colpe di un uomo così vile ed è proprio a questa particolarissima scelta che l’Aquila ci invita a prestare attenzione, di per sé sufficiente a renderci palese la gravità dei misfatti di Federico di Sicilia (“a dare a intender quanto è poco”). Questo particolarissimo regesto delle impu- tazioni contro Federico III approfondisce ulteriormente l’accezione tecnica della scrittura di questo libro, che è appunto l’annotazione in un registro contabile a partita doppia.48 Si potrebbe persino ipotizzare che Dante invochi le cifre arabe per denunciare le colpe di Federico III appellandosi a un sottile contrappasso. Non è difatti da escludere che anche i mercanti siciliani, seguendo il modello dei pisani e dei loro vicini mediterranei, avessero deciso di redigere in cifre arabe i propri registri contabili (i forti legami politici e mercantili tra questi potenze militano in effetti a favore di quest’ipotesi), il che avrebbe potuto dar luogo a qualche accusa da parte dei contemporanei. Queste polemiche—se mai vi furono—non sembrano però aver lasciato nessuna traccia.49 Che lo statuto del 1299 fosse noto a Dante pare indubbio, dato il suo impegno politico in quegli anni. Dante, inoltre, non poteva non prestare attenzione a questi statuti dell’Arte di Cambio: il nonno pater- no, Bellincione, aveva difatti esercitato la professione di cambiatore (di piccolo prestatore di denaro, vale a dire), e sappiamo inoltre che egli stesso, mentre ancora viveva a Firenze, si vide costretto a contrarre numerosi debiti.50 Lo stesso padre di Dante, Alighiero, così come suo zio Brunetto, avevano poi continuato la professione paterna, come ci testimoniano i documenti del tempo e la tenzone tra Dante e Forese, 47 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani il quale accusava Alighiero di praticare l’usura, ossia di fare prestiti a interesse (indipendentemente dal particolare tasso di interesse, in quanto con “usura” ci si riferiva allora a qualsiasi prestito a interesse, in quanto tale).51 Alighiero, per di più, sposò la sorella di Dante con un tale Lapo Riccomanno, il quale lavorava, a sua volta, come cambiatore.52 Dante, insomma, era semplicemente troppo esposto, sia sul piano personale che su quello politico, per poter ignorare un simile statuto, ribadito per ben due volte in giro di pochi mesi: come bene noto, Dante detenne difatti nell’estate del 1300 la carica di Priore.53 Non è invece dato capire se Dante condividesse il (probabile) errore di chi aveva steso questo statuto: non abbiamo difatti nessuna testi- monianza sulla formazione giovanile di Dante, tanto meno sulla sua cultura matematica, per cui non è possibile nessuna illazione intorno la sua conoscenza e comprensione della notazione araba. Stando ai dati a nostra disposizione è tuttavia lecito supporre che egli non abbia mai frequentato una scuola d’abaco “secondo la nuova lezione.” Il primo documento fiorentino in cui è citato un maestro d’abaco moderno risale infatti al 1283, un tale Jacopo dell’Abaco, che è forse l’autore del primo trattato fiorentino sull’argomento e di uno dei più antichi in volgare, il Tractatus algorismi (1307).54 Con il finire del secolo il numero di abacisti a noi noti aumentò tuttavia notevolmente e continuò poi a crescere per tutto il Trecento, ed è rimasta celebre la testimonianza di Villani sugli studi dei giovani fiorentini nel 1338: Troviamo, ch’e’ fanciulli e fanciulle che stanno a leggere da otto a diecimila. I fanciulli che stanno a imparare l’abbaco e algorismo in sei scuole, da mille in milledugento. E quegli che stanno ad apprendere la grammatica e loica in quattro grandi scuole, da cinquecentocinquanta in seicento.55 Furono quindi le due generazioni successive a Dante a impossessarsi pienamente della notazione araba, e lo statuto dell’Arte del Cambio del 1299 è probabilmente una spia dello scontro in atto tra le diverse genera- zioni di campsores. Si ritiene difatti che Jacopo Alighieri possa essere stato allievo di una delle più importanti scuole d’abaco fiorentine, situata di fronte alla chiesa di Santa Trinita, probabilmente fondata da quel Pietro dell’Abbaco di cui ci resta un importante trattato di aritmetica secondo la nuova lezione.56 L’altro figlio di Dante che ne commentò il poema, Pietro (il solo dei due a spingersi fino all’ultima cantica) fraintese al pari 48 Dante Studies 135, 2017 di tutti i commentatori antichi il senso dell’espressione, chiosandola piuttosto alla luce di Boezio, il quale aveva fatto uso delle sole ‘T’ e ‘P’ per indicare, rispettivamente, la filosofia teoretica e la filosofia pratica. Il padre gli aveva insegnato bene. Anche troppo. La generazione immediatamente successiva a quella di Dante, e non soltanto a Firenze, non era pertanto più in grado di scorgere nelle lettere mozze un riferimento a quei caratteri arabi ai quali erano stati educati sin da bambini.57 Già pochissimi anni dopo la morte di Dante, Jacopo della Lana—attivo a Bologna, ma di famiglia quasi certamente fioren- tina—mostrava una piena padronanza della notazione araba, tanto da riuscire a calcolare del tutto correttamente (o, perlomeno, a compren- dere dopo averla letta in qualche moderno trattato d’abaco) a quanto ammontasse 264 – 1: Per esprimere grande moltitudine dice che Più che il doppiar degli scacchi s’immilla. Lo doppiare degli scacchi si è apponere sul tavolieri dove si gioca a scacchi, sul primo scacco uno, sullo secondo due, sul terzo quattro, sullo quarto otto, sullo quinto 16, sullo sesto 32, e così doppiando fino all’ultimo scacco, che è lo 64, il quale numero si è tutto 18446744073709551617, e così dice che seimila fiate questo numero non potrebbe comprendere lo numero delli angeli.58 Nel corso del Trecento la notazione araba si affermò definitivamente in Italia e di qui in tutta Europa. Soltanto le amministrazioni pubbliche continuarono per diversi decenni, quando non per secoli, a mostrarsi refrattarie e persino ostili, forse anche soltanto impreparate, alle nuove “figure mercantesche”, temendo quelle stesse frodi fiscali che avevano dettato lo statuto fiorentino del 1299 e preferendo così raccomandarsi alle più rassicuranti “figure antique, o voi dire Imperiali .  .  . le qual figure antique, non ad altro effetto si mettono, se non per più segu- rezza, che quelle non si possino mutare, facendone di una un’altra.”59 Persino la contabilità di Medici iniziò a essere tenuta integralmente in cifre arabe soltanto nel 1494, mentre alcune amministrazioni europee continuarono ad opporvisi fino al 1700, come ci testimonia Samuel Pepys nel suo diario, e persino in Francia le “chiffres des Finances, dont les Financiers se servent ordinairement” continuarono a indicare, fino alla metà del secolo, i vecchi numerali romani.60 Si trattava però ormai di episodi marginali e destinati a cadere davanti alla diffusione della nuova notazione e ai fasti della nuova matematica: tra il 1500 e il ’600, seppure con differenze talvolta significative tra le diverse regioni, le cifre 49 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani arabe si imposero difatti definitivamente in tutta Europa. E fu così che la “scrittura” di Federico III di Sicilia, vergata com’era in lettere mozze, finì per diventare incomprensibile. §5. Il liber mortis di Dante L’analisi condotta nei precedenti paragrafi ha permesso di giungere alla corretta interpretazione del sintagma “lettere mozze” e di mostrare inol- tre, allargando un poco il campo di indagine, che il “volume aperto / nel qual si scrivon tutti i suoi dispregi” è da concepire come un registro contabile nel senso letterale del termine, un registro tenuto secondo la numerazione romana nel caso di Carlo II d’Angiò, nella moderna nume- razione araba per Federico III di Sicilia. “Scrittura,” in queste terzine, assume difatti l’accezione fortemente tecnica di “annotazione di una partita di libro di conti,” e rende così ancora più pregante il modello del registro contabile adottato da Dante.61 Il modello del registro contabile, a ben guardare, era già stata evocato da Dante nella prima cantica, più precisamente a Inferno XXIX 52–57: Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Spetta a Robert Hollander il merito di aver fatto luce sull’ultimo dei versi citati, dimostrando che il “qui” dove Dio registra i falsatori di moneta è proprio la Commedia, il testo stesso di Dante.62 “Registrare,” difatti, non ha in queste terzine l’accezione traslata di “relegare,” ma quella letterale di “porre a registro,” un registro che non è poi altro che il poema che stiamo leggendo.63 Questa interpretazione riceve un’ulteriore conferma dall’unica altra occorrenza del verbo nelle sue opere, dove è indubbio che Dante si stia riferendo proprio alle pagine di questa sua Commedia: “quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra” (Purg. XXX 62–63). 50 Dante Studies 135, 2017 Inferno XXIX e Paradiso XIX, specie se presi insieme, rivelano come Dante guardasse così al proprio poema—tra le altre cose—come a un registro in cui iscrivere i nomi dei dannati (e, in analogia, dei salvati) e come, con il progredire dell’opera, egli andasse elaborando e complican- do questo modello del registro in analogia a quello contabile, finendo così per intendere la Commedia quale un libro delle partite dei mercanti, strutturato per rubriche, sotto le quali collocare i nomi dei peccatori, e con scritti a margine i loro capi di accusa, le colpe, e i loro scarsi meriti. Questa metafora contabile era riconoscibile, quantomeno in filigrana, sin dall’episodio dei falsatori di moneta, e più di un commentatore aveva intravisto l’accezione pressoché tecnica dei termini impiegati da Dante in quelle terzine.64 I passi, a ben guardare, sembrano invitare a una mag- giore prudenza, poiché il “volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi” non può senza dubbio essere la Commedia in quanto tale, come è evidente. Tuttavia, è della più grande importanza comprendere che Dante aveva modellato il suo poema proprio su questo libro divino, il quale a sua volta era stato pensato (calcando un poco la mano) sul model- lo dei registri contabili dei mercanti di Firenze. Il passo dell’Inferno per- mette per di più di fugare queste cautele critiche, perché il “qui” dove sono registrati i nomi dei falsatori è proprio questo canto, e nient’altro, così come è ben difficile comprendere in cosa si distinguerebbe la voce del “volume” dedicata a Carlo d’Angiò, cosa potrebbe aggiungere alla corrispettiva terzina del Paradiso. La descrizione (profetica) del “volume aperto” rivela per di più una coscienza metatestuale acutissima, che spinge a credere che Dante abbia voluto ritagliare queste terzine dal resto del canto per farne un testo a sé stante—o, se non altro, per suggerire una simile lettura—evidenziandole e incatenandole tra loro per mezzo di un acrostico: le prime lettere delle terzine formano infatti la parola “lve” (peste), a indicare il malgoverno esiziale dei sovrani incriminati.65 Questo acrostico permette così di rafforzare la tesi che il “volume” e la Commedia vadano a coincidere, quantomeno all’infinito, per così dire: è difatti il poema stesso che teniamo in mano a recare iscritta la condanna comune a tutti i sovrani incriminati. Il “volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi” dipende ovviamente da un celebre passo dell’Apocalisse (20, 11–15), in cui si parla di un “libro della vita” che recherebbe iscritti i nomi dei salvati, il quale non si limitò a fornire a Dante l’ispirazione complessiva dell’episodio ma ne guidò le stesse scelte lessicali: “libri aperti sunt et alius liber 51 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani apertus est.” Il passo conobbe un’enorme fortuna in età medievale: lo si ritrova ad esempio nel Dies irae di Tommaso da Celano. Il volume che compare in moltissime raffigurazioni di Cristo Giudice fu ispirato, con buona probabilità, proprio da questi versetti, per quanto molto spesso le scritte di questo volume parlino della natura di Cristo anziché delle anime che questi sarebbe venuto a giudicare (così che lo si dovrebbe accostare piuttosto ai cartigli parlanti e identificativi di tanta arte sacra medievale):66 11 et vidi thronum magnum candidum et sedentem super eum a cuius aspectu fugit terra et caelum et locus non est inventus ab eis 12 et vidi mortuos magnos et pusillos stantes in conspectu throni et libri aperti sunt et alius liber apertus est qui est vitae et iudicati sunt mortui ex his quae scripta erant in libris secundum opera ipsorum 13 et dedit mare mortuos qui in eo erant et mors et inferus dederunt mortuos qui in ipsis erant et iudicatum est de singulis secundum opera ipsorum 14 et inferus et mors missi sunt in stagnum ignis haec mors secunda est stagnum ignis 15 et qui non est inventus in libro vitae scriptus missus est in stagnum ignis. Al più celebre liber vitae lo pseudo-Giovanni contrappone così dei meno noti e assai più generici libri, al plurale, senza qualificarli ulte- riormente, e che si sarebbe portati a concepire sul modello del primo, come se questi dovessero recare scritti i nomi dei sommersi, così come il primo recitava quelli dei salvati. Forzando il testo, Hollander vor- rebbe parlare però di un libro singolo, da lui ribattezzato il liber mortis, e da citare quindi sempre tra virgolette, dato che il termine non trova nessun riscontro nel testo biblico né è dato ritrovarlo nei trattati e nel lessico tecnico dei teologi (in strictly theological language). O, perlomeno, così sostiene Hollander—con un certo disappunto—rifacendosi a padre Berthier.67 L’ipotesi di un liber mortis dei dannati, da contrapporre al canonico liber vitae, riservato ai soli eletti, è in effetti molto seducente, e permet- terebbe di indicare un modello veramente preciso e autorevole per il “volume” di Paradiso XIX—e, quindi, seppure soltanto in via di ipotesi (per di più inverificabile), per il registro di Inferno XXIX. Una simile proposta si scontra tuttavia con le evidenze testuali, le quali sembra- no suggerire piuttosto una molteplicità di libri, tante quante sono le coscienze, di contro a quell’unico libro divino, il liber vitae per l’appunto, cosicché i libri dell’Apocalisse sarebbero da accostare al “libro della mia memoria”—al testo della coscienza—prima ancora che al “libro della 52 Dante Studies 135, 2017 vita.” Questi libri sarebbero, insomma, una sorta di regesto privato delle proprie azioni che ogni singolo individuo dovrà sottoporre a giudizio, sebbene il testo dell’Apocalisse rimanga piuttosto elusivo circa l’esatto rapporto tra questi e l’unico liber vitae. Il testo dell’Apocalisse fu effetti- vamente letto in questa chiave nell’Italia del ’300, come testimonia, ad esempio, un pannello d’altare conservato all’Accademia di Venezia che raffigura gli scheletri nell’atto di presentare a Cristo Giudice—il quale tiene invece in mano l’unico liber vitae divino—il proprio personalissimo liber conscientiae, sulla scorta dell’autorità di Agostino e del commento di Gerolamo a Daniele 7, 10 (“iudicium sedit et libri aperti sunt”).68 Ed era difatti proprio in tal modo che chiosò il versetto il francescano spirituale Pietro di Giovanni Olivi, il quale nelle lezioni tenute allo studio di Santa Croce di Firenze dal 1287 al 1289 si limitò a compendiare Agostino.69 I “libri” dell’Apocalisse, stando alla lettura di Olivi, si muoverebbero pertanto nello stesso orizzonte metaforico del “libro della memoria” con cui si apre (e chiude) la produzione dantesca, secondo un’esegesi probabilmente influenzata da Geremia 17, 1: “peccatum Iuda scriptum est stilo ferreo . . . super latitudinem cordis eorum.”70 L’intuito del critico era tuttavia corretto, per quanto privo di una giu- stificazione adeguata, tanto che, a sostegno della propria interpretazione, Hollander avrebbe potuto citare niente meno che Tommaso d’Aquino. Nella settima delle sue Quaestiones disputatae de veritate (scritte tra il 1256 e il 1259), Tommaso si interrogava difatti “utrum possit dici liber mortis, sicut dicitur liber vitae.” Tommaso allegava numerosi argomenti contro un simile concetto per quanto, nella conclusione della quaestio, sembrasse concedere che un simile libro dei dannati potesse pure esistere, seppure soltanto ad tempus (fino al Giudizio vale a dire, prima che la damnatio memoriae andasse a scendere su tutti i peccatori), ma pur sempre con- tinuando a ribadire che questo “libro della morte” non poteva essere equiparato in nessun modo al liber vitae divino: Ad secundum dicendum, quod aliqua conscribuntur in libro, ut perpetuo in noti- tia maneant. Illi autem qui puniuntur, per poenas ipsas exterminantur a notitia hominum; et ideo non conscribuntur, nisi forte ad tempus, quousque eis poena infligatur. Sed illi qui deputantur ad dignitates et praemia, conscribuntur simpli- citer, ut quasi in perpetua memoria habeantur.71 53 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani La Summa Theologiae andava a disperdere anche queste ultime ambi- guità, mettendo in chiaro come il liber mortis e la cancellazione dei nomi dei dannati dal “libro della vita” non erano da intendere che quali termini troppo umani dettati dalla mancata onniscienza, ché i nomi di chi cadeva in peccato mortale non potevano di certo essere depennati dal “magno volume / du’ non si muta mai bianco né bruno” (Par. XV 50–51), poiché questo libro divino è perfettamente immutabile mentre il primo, il liber mortis, nemmeno è attestato dalle scritture.72 Tommaso riteneva tuttavia legittimo che si continuasse a parlare di nomi che veni- vano cancellati dall’unico libro divino e di altri ancora che vi venivano iscritti “non solum ad opinionem hominum . . . sed etiam quantum ad rem,” chiamando in causa sottilissimi distinguo.73 Al di là dell’interpretazione esatta della proposta teologica di Tom- maso, quello che preme davvero è osservare che, nell’Europa e nell’Italia di fine ’200, c’era chi leggeva il ventesimo capitolo dell’Apocalisse come se questo parlasse di un libro che recava iscritti i nomi dei dannati, così come il liber vitae registrava quello dei salvati. E così, per quanto, al ter- mine della sua disamina, Tommaso finisse per rifiutare questo concetto come improprio e privo di qualsiasi legittimità in strictly theological lan- guage, sono proprio queste sue considerazioni, non appena guardate in controluce, a permetterci di intravedere che l’espressione “liber mortis” doveva essere diventata ormai d’uso nelle discussioni del tempo, ché è difatti proprio contro quest’uso corrente che Tommaso sentì di dovere reagire. I primi commentari della Commedia, forse ancora memori di queste discussioni di fine ’200, non si mostrarono difatti per nulla turbati dalla disinvoltura con cui Dante era passato dai “libri” molteplici di Apocalisse 20, 12 (esplicitamente indicata da Pietro Alighieri quale fonte primaria dell’episodio) all’unico “volume aperto / nel qual si scrivon tutti i suoi dispregi” di Paradiso XIX 113–14. Nessuno di loro, a dire il vero, parlava mai di un liber mortis, ma la questione del nome è in effetti piuttosto marginale. A premere è difatti soltanto la nozione di un libro “in quo . . . scribuntur omnes transgressiones hominum qui spernunt mandata Dei,” la quale evidentemente, agli occhi di questi primi commentatori del poema, non sembrava richiedere nessuna ulteriore giustificazione: 54 Dante Studies 135, 2017 Nota quod Sanctus Ioannes in Apocalypsi, vicesimo capitulo, dicit quod in die iudi- cii aperientur duo libri, in quorum uno scripta sunt omnia criminalia hominum, in alio scripti sunt qui sunt predestinati salvandi.74 Il tema del “liber mortis” sopravvisse infatti per decenni alle critiche sollevate da Tommaso. In una predica tenuta il 26 luglio 1304, il frate domenicano Giordano da Rivalto, nel tentativo di fare presa sul pub- blico fiorentino, tornava a parlare difatti di questo “libro della morte” in una vivida descrizione di quella che uno studioso ha brillantemente ribattezzato “la contabilità dell’aldilà”: Redde rationem villicationis tuae [Lc. 16, 2]. A ogne persona sarà detta questa parola da Dio al giudicio. Rendimi ragione della castalderia tua. Ed ogni cristiano questo giudicio dee forte temere . . . Vedete di questi fattori delle campagne, che istanno fuori di Firenze, c’hanno tra le mani l’avere altrui.. S’egli ha mal trattato quello della campagna, non ardisce né d’assegnare ragione, né d’apparire ove sia nullo di loro [dei proprietari] . . . Ma quando questi fattori rassegnano ragione, il loro rassegnamento è molto in grosso; perocchè non possono scrivere ogni danaiuzzo, scrivon pur le cose più grosse . . . Ma non fa così Iddio . . . E sono due i libri, uno di vita, ed uno di morte: nel libro della vita sono scritti tutti i beni, non è manco uno. Nel libro della morte sono scritti tutti i mali, tutti insino al più minimo. E però è suttile il giudicio di Dio.75 I due libri di fra Giordano corrispondono quindi alle due colonne distinte di una partita di conti: il libro della vita registrerebbe infatti soltanto le buone azioni degli uomini—di tutti gli uomini, siano essi destinati alla salvezza o alla dannazione eterna—mentre i loro misfatti saranno enumerati nel “libro della morte.” Tommaso d’Aquino, come si è visto, intendeva invece il liber vitae come il registro dei nomi dei dannati, e soltanto di quelli, una lettura indubbiamente più vicina al “volume aperto” della Commedia di quella avanzata da Giordano da Pisa, mentre i pochi commentatori che si soffermarono su questo passo dal Paradiso oscillarono un poco confusamente tra le due. Dante non poté ovviamente mai ascoltare questa predica di Fra Giordano, così come non è necessario supporre che, nello scrivere le terzine contro Carlo d’Angiò e Federico di Sicilia, andasse con la mente ai passi di Tommaso (è verosimile che Dante abbia mutuato il tema del liber mortis da Remigio de’ Girolami, discepolo di Tommaso a Parigi e superiore di Giordano a Firenze: una prima indagine del materiale non ha tuttavia prodotto nessun risultato). Le testimonianze congiunte di Tommaso d’Aquino e 55 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani Giordano da Pisa portano difatti a ritenere che il liber mortis fosse una metafora e un concetto ben vivo della religiosità italiana tra il 1200 e il ’300, relegato ai margini dalla teologia domenicana più intransigente, ma fatto proprio e variamente interpretato dai predicatori dell’ordine. Il già informatissimo fascicolo sulle valenze metaforiche del libro nella letteratura latina ed europea raccolto da Curtius può così andare ad arricchirsi di una nuova voce: il “libro della morte” degli escatologi e, con quelli, di Dante.76 §6. Conclusionsi Fra Giordano, come il padre Purdon di Joyce, “came to speak to business men and he would speak to them in a businesslike way.” Le prediche del domenicano grondano difatti di metafore finanziarie, spin- gendosi fino a proclamare che “Dio tiene bancho et presta a uxura”.77 Il frate sapeva che il suo pubblico, formato com’era da mercanti e dai loro familiari, da banchieri e notai, avrebbe capito e lo avrebbe apprezzato. Il lessico e l’immaginario finanziario non permeava soltanto le prediche del periodo ma la stessa poesia, tanto che già nei primi anni ’90 Forese aveva potuto porre termine alla sua tenzone con Dante chiedendo al rivale di portargli del panìco, “ch’i vo’ metter la ragione.”78 Le pratiche dei mercanti, dei banchieri e dei notai non si limitavano però a plasmare il solo lessico dei poeti, ma decidevano la forma stessa delle loro opere o, perlomeno, ne veicolavano la ricezione. È stato difatti dimostrato che gli estensori del celeberrimo manoscritto Vaticano 3793 avevano strutturato questo testo chiave della prima lirica italiana—fondamentale per la formazione dello stesso Dante (sebbene verosimilmente per via soltanto indiretta)—sul modello dei propri libri maestri: le diverse voci del libro di conti sono qui sostituite dalle diverse voci poetiche, ma l’impaginazione dei sonetti e delle canzoni non lascia dubbi sul modello codicologico ultimo di questa antologia.79 Questi colti rappresentanti della classe mercantile fiorentina si spinsero fino al punto di indicare Monte Andrea (un poeta-banchiere particolarmente caro ai compilatori del Vaticano 3793, per ovvi motivi di vicinanza sociale e culturale) con la stessa sigla, Mo., con cui indicavano nei loro libri maestri il saldo finale delle transazioni di un singolo debitore, o creditore (nel qual caso Mo. sta per Monta). Collocati entrambi al centro della pagina, posti in entrambi 56 Dante Studies 135, 2017 i casi tra parentesi, in un testo già fortemente strutturato sul modello delle rubriche di un registro finanziario, l’analogia è troppo stringente per poterla liquidare come un caso. La si potrebbe ovviamente spiegare come l’automatismo irriflesso di una pratica d’ufficio, ma non è da esclu- dere che si trattasse piuttosto di uno sberleffo bonario a quello che era sostanzialmente percepito come un collega, strizzando l’occhio agli altri lettori-colleghi, sicuri che quelli sarebbero stati al gioco di “rendicon- tarne” i componimenti. Dante avrebbe reagito a questi motteggi con la “serietà terribile” che gli era propria, la serietà assoluta di un autore che intendeva presentare tutti i propri giudizi poetici—e tanto più i politi- ci—quali avvisaglie e antesignani del Giudizio universale.80 A differenza di questo era avvenuto con Monte Andrea, era stato infatti Dante stesso a decidere in piena consapevolezza di strutturare il proprio libro come un registro diviso in rubriche, le quali avrebbero recati scritti i nomi dei dannati e l’ammontare esatto delle loro colpe. Dante si era difatti prefisso l’esplicito compito di reddere rationem di ogni poeta, di ogni politico e, più in generale, di ogni uomo. Dante conferì a questa metafora un’evidenza assoluta, facendosi forza del lessico tecnico dei campsores di Firenze e andando con la mente allo scontro tra i diversi sistemi di notazione che avevano infiammato gli uffici contabili di Firenze nei mesi immediata- mente precedenti il suo esilio. Il suo modello ultimo, però, non era uno dei tanti libri maestri che si potevano trovare nelle botteghe dei mercanti e sui quali era stato modellata l’antologia Vaticana, ma un libro che nessuno aveva ancora mai letto, ma che sarebbe stato prima o poi sotto gli occhi di tutti (o, almeno, così credeva Dante). Nel tormentatissimo dibattito sul genere della comedìa / poema sacro, bisognerà difatti tenere sempre a mente che Dante aveva un ulteriore modello per la propria “scrittura,” un libro “redolentem ubique” nei cento canti ma che sfugge a qualsiasi genere e canone letterario: il “volume aperto” dell’Apocalisse. È su questo modello divino che Dante andava esemplando la sua opera, il proprio personalissimo liber mortis. Humboldt-Universität zu Berlin 57 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani Ringraziamenti La scrittura di questo articolo si è protratta per molti anni, al punto che molte delle persone che mi hanno aiutato nelle prime fasi di questa ricerca potrebbero persino aver finito per dimenticare quanto debba a loro. Tra questi vanno menzionati perlomeno Lina Bolzoni, Roberta Cella, Claudio Ciociola e Marco Santagata. Il mio ringraziamento più sentito va però a Carlo Ginzburg, che ha seguito questo lavoro dai pri- missimi abbozzi fino alla pubblicazione. Ringrazio infine, e di cuore, il direttore e il comitato scientifico di questo giornale, i cui consigli mi hanno salvato da molti refusi, sviste ed errori e hanno migliorato di molto quest’articolo. Elenco dei commenti danteschi citati Jacopo della Lana (1324–28), Comedia di Dante degli Allaghieri col Com- mento di Jacopo della Lana bolognese, a cura di Luciano Scarabelli (Bologna: Tipografia Regia, 1866–67). 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Canto XIX, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone (Firenze: Franco Cesati, 2000–2002), III 282. Riccardo Scrivano, “Paradiso XIX,” L’Alighieri XXXVI (1995): 29–46. 2. Francesco da Buti (1385–95). 3. Cfr. Par. XX 67–69 (a parlare è sempre l’Aquila): “Chi crederebbe giù nel mondo errante / che Rifëo Troiano in questo tondo / fosse la quinta de le luci sante?” 4. Cfr. Prediche del Beato Giordano da Rivalto dell’Ordine dei Predicatori, a cura di Domenico Maria Manni (Firenze: Viviani, 1739), 54: “Or tu diresti: ecco un saracino, non udì mai ricor- dare Cristo, fa tutto ’l bene che puote, e guardasi di male; che fia di costui? salverassi per queste 62 Dante Studies 135, 2017 virtudi? Frate, tu mi fai quistione impossibile.” Il passo è connesso a Paradiso XIX da Carlo Delcorno, “Dante e il linguaggio dei predicatori”, Letture classensi XXV (1996): 73. Giordano da Rivalto, meglio noto come Giordano da Pisa, fu nominato lettore principale di S. Maria Novella, dove iniziò a predicare nel gennaio dello stesso 1303, in sostituzione del suo superiore, il magister Remigio de’ Girolami; cfr. Carlo Delcorno, Giordano da Pisa (Giordano da Rivalto) in Dizionario Biografico degli Italiani (Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2001) LV 243–51; d’ora in avanti DBI. 5. Si tratta di nomi esemplari canonici; cfr. Conv. 1.8.13; 3.11.7; DVE 2.6.5; Par. XIII 139– 142: “Non creda donna Berta e ser Martino, / per vedere un furare, altro offerere, / vederli dentro al consiglio divino; / ché quel può surgere, e quel può cadere.” Dante si ispira qui ai versetti di Mt. 12, 41–42: “viri ninevitae surgent in iudicio cum generatione ista et condemnabunt eam quia paenitentiam egerunt in praedicatione Ionae et ecce plus quam Iona hic regina austri surget in iudicio cum generatione ista et condemnabit eam quia venit a finibus terrae audire sapientiam Salomonis”; cfr. Venturi (1732). I versetti dovevano essere diventati un punto di riferimento costante delle discussioni sul tema cui si richiama anche Giordano da Pisa: “Et dicovi più: che li demoni giudicheranno li peccatori cristiani, et li saracini, et li giudei, et li tartari et li altri dannati. Diranno li saracini ai cristiani: ‘Oh, che è questo? Tu che credevi queste cose et sapevile et avevi le predicationi et le altre cose, et se’ venuto qua: va in del sommo fuoco infernale!’ ”; cfr. Giordano da Pisa, Prediche inedite (dal ms. Laurenziano, Acquisti e Doni 290), a cura di Cecilia Iannella (Pisa: ETS, 1997), 46–47; d’ora in poi Iannella. 6. Qui e nel resto dell’articolo le citazioni della Commedia sono prese, come di consueto, dall’edizione Petrocchi; cfr. La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi (Mondadori: Milano, 1966–1967). Ho tuttavia leggermente modificato l’interpunzione di queste terzine da Paradiso XIX, mettendo tra virgolette lo ‘i’ e lo ‘emme’ dei vv. 128–129 per facilitarne la comprensione, così come ho aggiunto la prima virgola del v. 133, immediatamente dopo la “e” iniziale (giustificherò questa mia ultima modifica nel prossimo paragrafo). La mia proposta interpretativa permarrebbe immutata anche qualora si preferisse adottare l’edizione di Federico Sanguineti, il quale propone—si segnalano con il corsivo le variazioni rispetto all’edizione Petrocchi—“che potran dir li Persi ai vostri regi” (v. 112); “tutti i s[u]oi” (v. 114); “segnata con uno I la sua bontate / quando il contrario segnerà un’emme” (vv. 128–29); “di quel” (v. 131); “finìo” (v. 132);”fien” (v. 134); “paranno” (v. 136), “àn” (v. 138); cfr. Dantis Alagherii Comedia, a cura di Federico Sanguineti (Firenze: Edizioni del Galluzzo, 2001), 483. 7. La più recente edizione del testo si può leggere nella “Edizione diplomatico-interpretativa della lettera di frate Ilaro (Laur. XXIX 8, c. 67r)”, a cura di Beatrice Arduini e H. Wayne Storey, Dante Studies CXXIV (2006): 77–89. 8. Ilaro ne cita persino i (presunti) versi iniziali: “Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, / Spiritibus que lata patent, que premia solvunt, / pro meritis cuiucunque suis” (ibid., 85). Secondo Padoan si tratterebbero invece piuttosto dei versi iniziali di quel poema paradisiaco con- sacrato a Beatrice che Dante aveva promesso al termine del Vita nova; cfr. Giorgio Padoan, Il lungo cammino del “poema sacro”: Studi danteschi (Firenze: Olschki, 1993), 22. Per un contributo recente a favore della sostanziale inaffidabilità dell’Epistola e una succinta presentazione dello stato della questione, vedi Alberto Casadei, Dante oltre la Commedia (Bologna: il Mulino, 2013), 129–41. Ulteriori argomenti contro l’autenticità della lettera in Paolo Pellegrini, “Tra Dante e Boccaccio: il monaco Ilaro non è mai esistito” in Storie e linguaggi I (2015): 41–104. Da vedere anche (di parere opposto) Umberto Carpi, La nobiltà di Dante (Firenze: Polistampa, 2004), 444–46. Nella Genea- logia Boccaccio sostiene che tra Dante e Federico di Sicilia intercorrevano degli ottimi rapporti di amicizia, ma si tratta di una testimonianza estremamente implausibile, anche tenendo conto di tutte le possibili esagerazioni dettate dal desiderio di nobilitare Dante, facendone il confidente dei più grandi uomini del suo tempo; cfr. Genealogia deorum gentilium, a cura di Vittorio Zaccaria (Milano: Mondadori, 1998), XIV xi: “Dantes noster Frederico Aragonensi, Sycelidum regi, et Cani della Scala, magnifico Veronensium domino, grandi fuit amicitia iunctus.” Si noti inoltre che l’Epistola di frate Ilaro—vale a dire, dell’unico altro documento che attesta l’ammirazione di Dante per Federico III—ci è pervenuta in una copia soltanto, per mano del Boccaccio, così che 63 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani pare molto plausibile supporre che la notizia dell’amicizia tra i due, riportata nella Genealogia, derivi proprio da questa lettera, con buona probabilità reperita e trascritta dal Boccaccio mentre andava raccogliendo materiali per il Trattatello e le Esposizioni; cfr. Saverio Bellomo, “Il sorriso di Ilaro e la prima redazione in latino della Commedia,” Studi sul Boccaccio XXXII (2004): 216. Billanovich sostenne che l’ideatore di questa lettera—e quindi, con quella, della leggenda dell’a- micizia tra Dante e l’odiato Federico III—non fosse poi altri che il Boccaccio, una tesi che è stata però confutata con validi argomenti da Giorgio Padoan, Il lungo cammino. 9. Cfr. Conv., IV 6.19–20; DVE 1.12.5. 10. Come ci testimonia Giovanni Villani nella sua Cronica (IX 54); vedi inoltre Salvatore Fodale, “Federico III (II) d’Aragona, Re di Sicilia (Trinacria),” DBI XLV 682–94. Su Enrico VII, oltre ai classici William Bowsky, Henry VII in Italy: The Conflict of Empire and City-State, 1310–1313 (Lincoln, NE: University of Nebraska Press, 1960) e Francesco Cognasso, Arrigo VII (Milano: Dall’Oglio, 1973) è ora da vedere il numero monografico di Reti Medievali 15/1 (2014) e la raccolta di saggi Enrico VII, Dante e Pisa a 700 anni dalla morte dell’imperatore e dalla Monarchia (1313–2013), a cura di Giuseppe Petralia e Marco Santagata (Ravenna: Longo editore, 2016). 11. Federico III iniziò a trattare con Enrico VII a partire dalla seconda metà del 1311. 12. Cfr. Francesco Giunta, “Dante e i sovrani di Sicilia,” Bollettino Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani X (1969): 29–43. 13. Sulla datazione del presunto incontro tra Dante e frate Ilaro, vedi Alberto Casadei, Dante oltre la Commedia, 130. Che la dedica del Paradiso a Federico III sia del tutto inverosimile lo ammette lo stesso Padoan, il quale—seguendo Parodi—crede però di poterne fare un argomento, e il più stringente, a favore dell’autenticità dell’epistola, dato che nessuno che avesse una cono- scenza anche soltanto superficiale delle opere di Dante poteva ignorare i numerosi passi contro Federico III, cosicché l’implausibilità di una falsificazione così grossolana si trasmuta nella prova dell’affidabilità dell’epistola; cfr. Giorgio Padoan, Il lungo cammino, 5–23, che va a rielaborare la sua voce “Ilaro” nella Enciclopedia dantesca (Roma: Istituto della Enciclopedia italiana, 1970–1978), III 361–63; da qui in avanti ED. 14. Cfr. Bosco—Reggio (1979): “Onor: il termine non ha valore elogiativo: i due sovrani furono sempre giudicati con severità da Dante . . . qui onor può forse valere più o meno ‘dinastia’. Questo interessa Manfredi: l’apprezzamento negativo sull’opera di Federico e di Giacomo qui non c’entra. Del resto qui parla il personaggio Manfredi, non Dante. Il Tobler, seguito poi dal Parodi, pensa che possa valere come onor in ant. fr. e in prv., cioè ‘dominio, possesso’ estenden- done il senso anche a chi lo possiede. Sarebbe lo stesso caso, aggiunge il Parodi (Bull. VIII 52), di podestà o di sacra corona”. 15. Analoghe cautele erano già state avanzate da Pietro Palumbo, Il “novissimo” Federico nel giudizio dantesco in Atti del Convegno di Studi su Dante e la Magna Curia (Palermo: Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1967), 226–35. Debolissimo Carmelo Ciccia, L’onore e il disonore di Sicilia e d’Aragona (Purg. III e VI, Par. XIX e XX) in Id., Allegorie e simboli nel “Purgatorio” e altri studi su Dante (Cosenza: Pellegrini, 2002), 107–15. 16. Federico d’Aragona, semplificando notevolmente, fu difatti luogotenente e vicario gene- rale del Regno di Sicilia dal 1291 al 1296, rex Sicilie dal 1296 al 1302 (cioè fino alla pace di Calta- bellotta) e quindi Re di Trinacria dal 1320 alla morte, avvenuta nel 1337 (sebbene Federico finisse per accettare il titolo di “rex Trinacrie” soltanto nel 1311). Federico d’Aragona, a dire il vero, cercò in ripetute occasioni di fregiarsi nuovamente del titolo di “rex Cicilie,” la più importante delle quali nell’agosto 1314, trovando tuttavia davanti a sé l’opposizione costante degli Angioini e, con quelli, del Papa; cfr. Salvatore Fodale, Federico III (II) d’Aragona. Non è così da escludere che, quando Dante, a Paradiso XIX, accusa Giacomo di Maiorca, fratello di Pietro III d’Aragona e quindi zio (barba) di Federico III e suo fratello Giacomo II d’Aragona di aver “tradito” ( fatto bozze) la propria stessa stirpe (nazione), si riferisca proprio alla loro alleanza contro Federico, un loro familiare, in favore del Papa e degli Angioini; cfr. Par. XIX 136–38: “E parranno a ciascun l’opere sozze / del barba e del fratel, che tanto egregia / nazione e due corone han fatte bozze”; cfr. Pietrobono (1946 [1924–30]): “han fatte bozze, fornicando con papa Bonifazio, le hanno vituperate, al modo che le mogli infedeli fanno ai loro mariti”. Il passo è da avvicinare quindi 64 Dante Studies 135, 2017 a Inf. XIX 2–4: “che le cose di Dio, che di bontate / deon essere spose, e voi rapaci // per oro e per argento avolterate”. 17. Pietro Palumbo, Il “novissimo” Federico, 227 (dal trattato di pace di Caltabellotta, ratificato nel 1302). Paradiso XIX 131 sembrerebbe pertanto andare a mettere in discussione la legittimità e il titolo di Federico in Sicilia piuttosto che la sua signoria effettiva sull’isola, cui farebbe invece allusione Purg. VII 119, dove Dante scrive che “Iacomo e Federigo hanno i reami” (al plurale, quindi), anche se i versi sono così concisi e la cronologia talmente malcerta che pare si debba disperare di un’interpretazione veramente risolutiva. Per altre occorrenze di “guardare” nella stessa eccezione all’interno della Commedia, vedi Inf. XI 7–9: “io vidi una scritta / che dicea: ‘Anastasio papa guardo, / lo qual trasse Fotin de la via dritta’ ”; Inf. XII 32–33; Purg. XIX 104. 18. Bellomo, basandosi sull’indagine delle fonti dei presunti versi iniziali della Commedia latina, ha definitivamente dimostrato che il falsario dell’Epistola di frate Ilaro proviene dal “milieu preumanistico settentrionale, tra l’ambiente del Mussato e quello di Giovanni del Vir- gilio,” inclinando con forza per il secondo. La dedica del Paradiso a Federico III, di per sé così inverosimile, sarebbe nata dal desiderio di mettere in ombra la dedica di quella stessa cantica al nemico storico di Padova, Cangrande della Scala, riportata per l’appunto dalla cosiddetta Epistola a Cangrande (lo ipotizzava già Rajna). La scelta sarebbe quindi ricaduta su Federico d’Aragona—indicato nell’Epistola con il titolo di rex Cicilie—in quanto principale esponente in Italia della fazione ghibellina, il che sembrava farne, agli occhi del falsario, un dedicatario perlomeno accettabile; cfr. Saverio Bellomo, Il sorriso di Ilaro, 233–34. La scelta del falsario di porre il Paradiso sotto il segno di Federico d’Aragona potrebbe essere stata dettata anche dai solidi rapporti diplomatici tra Federico e i Veneziani, i quali rifiutarono difatti tutte le profferte degli Angioini di schierarsi al loro fianco contro la Sicilia di Federico; cfr. Luca Lombardo, Dante e Federico III: UN caso ancora aperto, tra storia e filologia in Il Medioevo nel ’300: Raimondo Lullo e Federico III d’Aragona, re di Sicilia, a cura di Marta M. M. Romano e Alessandro Musco (Turnhout: Brepols, 2008), 372–75. 19. Fa eccezione il solo Alberto I d’Austria, il primo dei sovrani attaccati a Paradiso XIX: “Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto” (v. 115). 20. Cfr. ÆN. III. 707; Purg. XVIII 136–138: “E quella [gente] che l’affanno non sofferse / fino a la fine col figlio d’Anchise / se stessa a vita sanza gloria offerse.” 21. L’Ottimo Commento (1333) e Jacopo della Lana (1324–28). Questa prima interpretazione è accolta anche nelle Chiose ambrosiane (1355[?]): “Scriptura—Epygramma sive titulus sue lau- dis. Mozze—Per hec et sequentia verba ostendit nullam laudem eidem ascribi debere” e, poi da Pietro Alighieri e nel Codice cassinese, anche se con un’importante variazione. Il riferimento al “figliuolo” di Federico III è un errore di Jacopo della Lana, che fraintende quindi anche la terzina successiva (forse leggendo il “quei” del v. 131 come un pronome plurale). 22. Cfr. Mattalia (1960), il cui commento è ripreso alla lettera, senza tuttavia indicare la fonte, da Alessandro Niccoli, s.v. “mozzo,” in ED III 1052–1053. 23. Anonimo Fiorentino (1400[?]), che tuttavia segue l’errore Jacopo della Lana e parla di un “figliuolo” di Federico III. Johannis de Serravalle (1416–17) si sforza di accordare il commento di Benvenuto con il testo della Commedia a sua disposizione, il quale reca la lectio alternativa “non terranno” (anziché “noteranno”): “et ad dandum intelligendum quantum est modica sua scriptura, idest quam pauca sunt scribenda de ipso vili et pravo, fient littere mozze, idest pauce, vel scisse, vel truncate, que non tenebunt multum in parvo loco: et tamen multa mala possent dici de ipso.” L’oscurità del passo sotto esame era difatti ulteriormente complicata da un equi- voco, parzialmente paleografico (“che non terranno”), una variante attestata in vari rami della tradizione; cfr. La Commedia secondo l’antica vulgata, I 159; IV 324. A seguire Benvenuto da Imola saranno poi anche Landino (1481), Vellutello (1544), e Daniello (1547–68). 24. Pietro Alighieri (3) (1359–64). L’interpretazione di Pietro è fedelmente riportata nel Codice cassinese, che chiosa poi correttamente “scilicet. dictus rex in bonitate et virtute” (Codice cassinese (1350–75[?]). 25. Francesco da Buti (1385–95). 26. Torquato Tasso (1555–68). 65 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani 27. Ernesto Giacomo Parodi, Lingua e letteratura (Venezia: Pozza, 1957), 394: “Forse che Dio prima assegnò poco spazio e poi s’accorse dell’errore? No, si tratta di uomo così da poco, che, per quanto sian molti i suoi falli, non meritano che si perda spazio a notarli; poche abbreviature stenografiche, e sarà presto finita col fastidio di dover occuparsi della sua nullità. Lo sdegno di Dante ha trovato qui una delle più bizzarre e insieme più pungenti espressioni.” 28. A notarlo, con grande finezza, è Hollander (2000–2007): “Frederick is the only one of the pestilential dozen to receive more than a single tercet for his dispraises. With a wry sense of humor, Dante claims that Frederick is unworthy of attention, yet he gives Frederick’s unwor- thiness more space than any of his competitors in malfeasance.” 29. La parafrasi alternativa suona quindi piuttosto: “la registrazione delle sue colpe sarà verga- ta con lettere mozze, che annoteranno (permetteranno di scrivere) molto in poco spazio, e questo dia un’idea della gravità del suo peccato!”. Questa mia interpretazione è in effetti molto vicina a quella di Benvenuto da Imola, il cui unico errore è di aver esteso la parentetica al verso successivo. 30. Questa virgola è già stata aggiunta al testo dell’edizione Petrocchi riportato all’inizio dell’articolo. 31. Il primo fu Johannis de Serravalle (1416–17), anche se i vari sinonimi utilizzati sembrano tradire qualche perplessità: “fient littere mozze, idest pauce, vel scisse, vel truncate.” La glossa di Torquato Tasso (1555–68), “mozze, brevi,” di nuovo presa da Fino, sembra invece suggerire che le lettere debbano essere scritte con grafia ridotta. La glossa fu poi ripresa da Longfellow (1867), il quale propose i caratteri minuscoli, di contro ai maiuscoli impiegati per Carlo d’Angiò: “In diminutive letters, and not in Roman capitals, like the DILIGITE JUSTITIAM of XVIII. 91, and the record of the virtues and vices of the Cripple of Jerusalem.” Questa lettura erronea fu poi nuovamente proposta da Mestica (1921–22 [1909]) che parla di “lettere abbreviate,” e sviano nella stessa direzione Steiner (1921), Provenzal (1938), Momigliano (1946–51) e Pietrobono (1946 [1924–30]), che pure cerca di aggiustare il tiro: “lettere mozze, dimezzate e abbreviate, in una specie insomma di carattere stenografico.” Porena (1946–48) corregge l’errore ma parla di “caratteri abbreviati,” un’espressione ambigua se estrapolata dal contesto, come si trova poi in Sapegno (1955–57) e Giacalone (1968), che non si riesce quindi a capire se abbiano semplicemente seguito la lettera, imprecisa, di Porena o se ne abbiano frainteso lo spirito. Sbaglia invece senza dubbio Anna Maria Chiavacci Leonardi (1991–1997), che parla di “lettere accorciate.” 32. Cfr. Porena (1946–48): “Che lettere mozze significhi (come alcuni sostengono) che le singole lettere alfabetiche siano mozzate, è da escludere, ché esse non sarebbero leggibili e occuperebbero nell’insieme spazio quasi uguale e non parvo loco. Questa interpretazione strana è nata dal non aver ricordato che lettere in antico significava assai di frequente caratteri, modo di scrivere, onde lettere mozze deve significare caratteri abbreviati, ossia, più o meno, stenografia. Cfr. Francesco Tateo, lettera in ED III 631–2: “estendendone il significato con una sineddoche, D.  indica con lettere le “note” mozze, ossia abbreviate, con le quali nel libro divino saranno ricordati i molti vizi di Federico II di Sicilia.” 33. Pietro Alighieri (3) (1359–64). Seguito, di nuovo, dal Codice cassinese (1350–75[?]): “idest. detruncate a suis ditionibus”. Il riferimento a Boezio è, più precisamente, al De consolatione philosophiae, I i 4. 34. A partire da Vellutello (1544): “le lettere saranno mozze, ciò è, abreviate,” trascritto lette- ralmente da Daniello (1547–68). Cfr. (1960): “col Casella, delle abbreviature ottenute usando una sola “lettera” di una parola, a fini stenografici o crittografici, e di cui discorre Isidoro in Etym., I, 22–24 (“De notis iuridicis”; “De notis militaribus”; “De notis litterarum” ecc.)”; la stenografia era già stata proposta da Grandgent (1909–13). 35. Benvenuto da Imola (1375–80); cfr. Landino (1481). 36. Ibid. 37. Il significato esatto, quasi specifico, di importat nel latino di Benvenuto lo si evince dal commento alla precedente terzina: “Et dicit: quando un emme, quod importat mille” (Par. XIX 127–129) e ancora più chiaramente dal commento a Purg. XXXIII 40–5: “un cinquecento diece e cinque, idest, unus dux; nam D semel positus apud arithmeticos significat quingentos, V impor- tat quinque, X decem, et istae tres literae constituunt istud nomen dux” (dove “importat” e 66 Dante Studies 135, 2017 “significat” sono utilizzati come sinonimi). Analogamente per le sigle: “literis illis S. P. Q. R., quae literae important: senatus, populusque romanus” (Par. XVI 148–154). 38. Unica eccezione, per quanto importante, Poletto (1894): “Di Carlo ha detto che meriti e demeriti sarebbero segnati nel libro di Dio con numeri romani, che sarebbero le lettere mozze, cioè non scrittura per disteso.” Mattalia (1960) discute l’ipotesi, anche se con qualche confusione, ma inclina da ultimo per l’interpretazione tradizionale: “o s’intende di cifre scritte in lettere romane mozze, mozzate, incomplete; o, e forse meglio, col Casella, delle abbreviature.” 39. Le colpe degli altri sovrani sembrano che saranno invece registrate una ad una e specificate nel dettaglio, in modo da essere chiaramente riconoscibili: “Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, / quella che tosto moverà la penna” (vv. 115–117), “Lì si vedrà la superbia ch’asseta” (v. 121), “Vedrassi la lussuria e ’l viver molle” (v. 124), “E parranno a ciascun l’opere sozze / del barba e del fratel, che tanto egregia” (vv. 136–137), di modo che solo “Carlo e Federigo” fanno eccezione. 40. Cfr. Fraticelli (1852): “I Commentatori intendono abbreviature; ma le abbreviature si fanno non con lettere mozze, ma con parole mozze. Io credo dunque che il poeta abbia voluto indicare i numeri arabi, i quali hanno più de’ romani la proprietà di notar molto in poco spazio.” Lo segue poi, senza citarlo, Brunone Bianchi; cfr. Bianchi (1868): “Ha detto sopra che al Ciotto di Gerusalemme sarebbero state segnate le sue cattività con un’M . . . Ora dice qui, che le viltà e brutti fatti di Federigo saranno tanti, da doversi mozzare, compendiare queste stesse lettere affinché possano entrare nella pagina del libro di Dio. Le cifre arabiche, per es., possono consi- derarsi come un’abbreviatura dei numeri romani.” Il commento di Fraticelli è riportato infine da Giuseppe Campi (1888–93), sebbene Campi inclini poi per un’esegesi più tradizionale: “Il Frati- celli non consente che lettere mozze significhino abbreviature, ma invece numeri arabi, ch’hanno la proprietà di notar molto in poco spazio, ed assai più brevemente che non fanno i numeri romani.” 41. L’ultima opera di Fibonacci, il Liber Quadratorum, è dedicato a Federico II—il suo trattato De arte venandi cum avibus era già stato citato nell’opera maggiore—e nasce dalla discussione con i matematici e gli astrologi della sua corte, in particolare con Giovanni di Palermo. Il Liber abaci e le altre opere di Fibonacci furono pubblicate a metà ’800 da Baldassare Boncompagni; Scritti di Leonardo Pisano matematico del secolo decimoterzo, a cura di Baldassare Boncompagni (Roma: Tipo- grafia delle Scienze Matematiche e Fisiche, 1857). Ne esiste anche una traduzione inglese, priva di commento, Fibonacci’s Liber abaci: A translation into modern English of Leonardo Pisano’s Book of calculation, translated by Laurence Sigler (New York, NY: Springer, 2003). Utile l’introduzione in Leonardo Pisano, Le livre des nombre carrés, traduit pour la première fois du latin médiéval en français, a cura di Paul Ver Eecke (Bruges: Desclée De Brouwer, 1952), i–xxv. 42. Cfr. Maria Muccillo, Fibonacci, Leonardo (Leonardo Pisano), in DBI XLVII. 43. Cfr. Bruno Dini, Saggi su una economia-mondo (Ospedaletto: Pacini 1995), 129–30. Gino Arrighi, La matematica dell’Età di Mezzo: Scritti scelti (Pisa: ETS, 2004), 74 parla di un trattato di abaco umbro della metà del secolo. La diffusione della numerazione araba in Europa non dipese ovviamente dal solo Fibonacci; cfr. Jens Høyrup, “Fibonacci—Protagonist or Witness? Who Taught Catholic Christian Europe about Mediterranean Commercial Arithmetic?”, Journal of Transcultural Medieval Studies 1 (2014): 219–47. 44. Statuti dell’Arte del Cambio di Firenze (1299–1316), con aggiunte e correzioni fino al 1320, a cura di Giulia Camerani Marri, in Fonti sulle corporazioni medievali, IV (Firenze: Olschki, 1955), 72–73; cfr. gli statuti del 1300 (C), 1313 (LXXXXIII), e 1316 (LXXXXIIII: per abacum); enfasi mia. Nella traduzione italiana di Maria Lucioni all’interno del libro di Alexander Murray, Ragione e società nel Medioevo (Roma: Editori Riuniti, 1986), 182: “Parimenti si stabilisce e si ordina che nessuno di quest’arte consenta o permetta di scrivere per sé o per altri, o faccia scrivere, nel suo registro o libro contabile, o in nessuna sua altra parte, dove si scrivono uscite o entrate, qualcosa che si intenda come segno o lettera dell’abbaco, ma scriva chiaramente e per esteso mediante lettera. Al contravventore i consoli sono tenuti a far pagare, a titolo di ammenda, venti fiorini piccoli, per qualsivoglia irregolarità e qualsiasi documento; parimenti i consoli sono tenuti, se giungerà in loro mano qualche scritto che contravvenga quanto predetto, o in parte quanto predetto, personalmente e in virtù del loro officio, [sono tenuti] a condannare nel modo pre- detto. E quanto predetto deve aver vigore dalla metà del mese di aprile dell’anno del Signore 67 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani mille duecento novanta nove, dodicesimo dall’indizione in avanti, ossia dai registri contabili che s’iniziano a scrivere dalla metà del mese d’aprile in avanti, e per le ragioni che si scrivono dal mese di aprile in avanti.” L’espressione “per modum vel per licteram abbachi” si richiama poi con ogni probabilità al “modus Indorum” di Fibonacci e “lictera abbachi,” utilizzata come sinonimo, è da intendere in chiara contrapposizione alla “lictera” in senso assoluto, la scrittura tradizionale. Molto probabilmente, infatti, “lictera” non significa qui il singolo carattere grafico (“segno o lettera,” come traduce Lucioni) ma la “scrittura” o notazione araba, in analogia con quanto detto sopra per lettere. 45. Dirk Jan Struik, “The prohibition of the use of Arabic numerals in Florence,” Archives Internationales d’Histoire des Sciences 21 (1968): 291–94. L’autore ipotizza, in maniera piuttosto romanzesca, che si tratti invece di una misura contro le nascenti forze democratiche delle Arti minori e della fazione ghibellina, sviluppando una tesi di Raymond L. Wilder, Evolution of mathe- matical concepts (New York: Dover, 1968), 93 e 169, il quale parlava, assai più genericamente, di scelta “conservatrice.” Murray suppone invece fosse stato il Papato ad imporlo, in quegli anni il principale alleato economico della Firenze, per scongiurare l’usura. Entrambi, tuttavia, sembrano cadere nel pericolo di interpretare immediatamente queste resistenze all’introduzione delle cifre arabe come un atto di oppressione e di conservatorismo politico; Ragione e società, 182. La tesi della contraffazione è invece difesa con numerose testimonianze da Karl Menninger, Number Words and Number Symbols: A Cultural History of Numbers (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1970), 426–28. Decisiva quella di uno dei primi libri di contabilità veneziani: “lequal figure antique si fanno, perche le non si possono così facilmente diffraudare come quelle dell’abaco moderno, lequal con facilita di una sene [segno] potria fare un’altra, come quella del nulla, dalla qual seno potria far un 6 uno 9 e molte altri si potriano mutare”; che il bando si riferisca soltanto alla registrazione delle entrate e delle uscite (data et accepta) rinforza ulteriormente questa tesi. La tesi di Menninger è stata recentemente ripresa da David A. King, The Ciphers of the Monks: A Forgotten Number Notation of the Middle Ages (Franz Steiner Verlag: Stuttgart, 2001), 315–16, che tuttavia propone come ragione alternativa, se pure in via fortemente ipotetica, la mancanza di una convenzione di scrittura: “perhaps the forms [delle cifre arabe] were so diverse that no standard was recognisable”. Questa difficoltà è testimoniata per alcune aree europee, ma in Italia pare fosse un problema piuttosto marginale, per quanto documenti anche importanti attestino alcune differenze tra le “figure dell’arte vecchia e della nuova” (limitatamente alla grafia dei numeri “4”, “5” e “7”); cfr. Gino Arrighi, “Il primo abaco in volgare italiano (1307). Il Cod. 2236 della Biblioteca Ricciardiana di Firenze”, Archivio storico italiano 525/III (1985): 429–35; ora in Id., La matematica dell’Età di Mezzo, 75–79. Per le norme grafiche della scrittura notarile in cifre romane, vedi Karl Menninger, Number Words, 281–87. 46. Lo dimostra con grande chiarezza Karl Menninger, Number Words, 424: “the new nume- rals were adopted in the early Middle Ages not because of any conception of the advantages of place-value notation but merely as a new and exotic means of writing numbers. The Indian numerals were seen as nothing but abbreviations for numbers established on the counting board”; 284: “No one took the mental step of realizing what had actually been done with what appeared as mere abbreviations.” I numerali ibridi cinquecenteschi riportati da Menninger a pagina 287 (“1·5·IIII” per “1504”, “15000·30” per “15030”, e così via) mostrano la persistenza di queste stesse difficoltà anche nei secoli successivi. 47. Statuti della honoranda Università de’ Mercanti della inclita città di Bologna, Riformati l’anno MDL, Bologna 1554, fol. 57r; citato da Florence Edler, Glossary of Business Terms: Italian series 1200–1600 (Cambridge, Mass: The Medieval Academy of America, 1934), 121. Nell’ordinanza bolognese “abaco” indica tuttavia i numerali romani, mentre nello statuto fiorentino del 1299 il “modus vel lictera abbachi” designava i numerali arabi, un’ambiguità piuttosto infelice ma ben nota agli studiosi, i quali sono ormai in grado di scioglierla con relativa facilità. Per un’ulteriore conferma si veda uno dei primissimi trattati d’abaco in volgare, il primo fiorentino a noi noto, di poco successivo al nostro statuto (fu scritto difatti intorno al 1307): “ancora scriviamo qui disotto come lievano le dette figure et per cioè che ss’intendano meglio e più apertamente sì lle scriviamo per fighure e simigliantemente per lettere perciò che sança alcun magisterio l’uomo 68 Dante Studies 135, 2017 per se medesmo le possa intendere e sapere che ’l çevero per se non significa ma è potençia di fare significare”; Gino Arrighi, Il primo abaco in volgare italiano (1307), 77. 48. Cfr. Florence Edler, Glossary, 266. 49. Sulla situazione fiscale in Sicilia durante il regno di Federico III, vedi Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro (Roma-Bari: Laterza, 1982), 52–54 e 102–108; Henri Bresc, Un monde méditérranéen: Economie et societé en Sicile, 1300–1450 (Palermo-Roma: Accademia di scienze lettere e arti di Palermo, 1986), II 792–97. Già Salvatore Betti favoleggiava di una qualche forma di contrappasso, con tratti quasi da novella: “scrivendo le sue molte colpe con lettere abbreviate, come egli, pare, usava scrivere con abbreviature per far economia sulla carta”; cfr. Trucchi (1936). Giorgio Inglese, pur facendo propria la mia proposta di leggere “scrittura” come un termine contabile tecnico, mi ha obiettato che, nel caso in cui colpe di Federico III ammontassero a “mille” come era il caso per Carlo d’Angiò, “1000” finirebbe per occupare più carta di “M.” Indubbiamente, ma “mille” indica nel passo in questione una grande cifra generica (il valore simbolico del termine è palese), e grandi cifre di questo tipo le si indica di norma più rapidamente e più efficacemente con le cifre arabe che con le romane (che è poi il motivo per cui i mercanti fiorentini sfidarono le norme ufficiali e adottarono la notazione araba). Da parte sua, Inglese preferisce rifarsi invece senza ulteriori argomenti al commento di Benvenuto da Imola; cfr. Giorgio Inglese, Paradiso (Roma: Carocci, novembre 2016). 50. Per un’analisi della documentazione pertinente, vedi Franek Sznura, “I debiti di Dante nel loro contesto documentario” in Reti Medievali. Rivista 15/2 (2014): 303–22 e, più in generale, la nuova edizione del Codice Diplomatico Dantesco, a cura di Teresa De Robertis, Laura Regnicoli, Giuliano Milani e Stefano Zamponi (Roma: Salerno editrice, 2016). 51. L’accusa di Forese contro il padre di Dante si legge nel suo primo sonetto di risposta (L’altra notte mi venne una gran tosse); cfr. Rime, a cura di Gianfranco Contini (Torino: Einaudi, 1939), 85–87. Sul concetto di “usura” al tempo di Dante vedi perlomeno Ovidio Capitani, “Sulla questione dell’usura nel Medioevo” in Id., L’etica economica medievale (Bologna: il Mulino 1974): 23–46 e Giacomo Todeschini, Il prezzo della salvezza: Lessici medievali del pensiero economico (Roma: La Nuova Italia, 1994). Più recentemente, dello stesso autore, “Usury in Christian Middle Ages: A Reconsideration of the Historiographical Tradition (1949–2010)” in Religione e istituzioni religiose nell’economia europea: 1000–1800, a cura di Francesco Ammannati (Firenze: Firenze University Press 2010), 119–130. Per un’introduzione alle idee di Dante in materia economica, vedi Giuseppe Garrani, Il pensiero di Dante in tema di economia monetaria e creditizia (Palermo: Fondazione culturale “Lauro Chiazzese”, 1965). 52. Sul tema vedi anche Jeremy Catto, “Florence, Tuscany and the World of Dante” in The World of Dante, edited by Cecil Grayson (Oxford: Clarendon Press, 1980), 7–8. 53. Dante detenne la carica di Priore nel bimestre dal 16 giugno al 15 agosto; per un rapi- do schizzo sulla carriera politica di Dante a Firenze vedi la voce curata da Chimenz nel DBI II 89–128. Non abbiamo invece nessuna informazione sull’attività politica di Dante nel 1299 (nell’anno, vale a dire, in cui fu originariamente promulgato lo statuto dell’Arte di Cambio che ci interessa qui), poiché, come noto, sono purtroppo andate smarrite tutte le consulte (cioè, i verbali delle sedute del Comune) del periodo dal luglio del 1298 al febbraio del 1301. 54. Cfr. Annalisa Simi, Trascrizione ed analisi del manoscritto Ricc. 2236 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, Rapporto matematico n. 287, Università di Siena, 1995; il Cod. 2252 della Biblioteca Ricciardiana di Firenze, un Trattato d’aritmetica, che pure potrebbe essere anteriore, è infatti di dubbia datazione (oscillando tra il 1270 e il 1316). Un catalogo molto ricco dei trattati d’abaco e d’aritmetica delle biblioteche fiorentine si trova in Diane Finiello Zervs, “The Trattato dell’Abbaco and Andrea Pisano’s Design for the Florentine Baptistery Door”, Reinassance Quaterly XXVIII/4 (1975): 483–503. 55. Cfr. Giorgio Villani, Cronica di Giovanni Villani a miglior lezione ridotta coll’aiuto de’ testi a penna, XI 94 (Firenze: Sansone Coen, 1845), III 324. Cfr. Elisabetta Ulivi, Le scuole d’abaco a Firenze (seconda metà del sec. XIII- prima metà del sec. XVI), in Luca Pacioli e la Matematica del Rina- scimento: Atti del Convegno internazionale di studi, Sansepolcro 13–16 aprile 1994, a cura di Enrico Giusti (Città di Castello: Petruzzi, 1998), 41–60. 69 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani 56. Pietro dell’Abbaco fu matematico, astronomo e astrologo di grandissima fama, celebrato sia da Giovanni Villani che da Boccaccio (morì intorno al 1346). Cfr. Gino Arrighi, Introduzione a Paolo dell’Abbaco, Trattato d’aritmetica: Secondo la lezione del codice Magliabechiano XI, 86 della Biblioteca Nazionale di Firenze (Pisa: Domus Galileana, 1964), 7–8. Cfr. Id., Il Codice L. IV. 21 della Biblioteca degl’Intronati di Siena e la “Bottega dell’Abaco a Santa Trinita” in Firenze, in Id., La matematica nell’Età di Mezzo, II.7. 57. Un caso analogo è stato studiato da Mirko Tavoni, il quale ha mostrato come già i più antichi commentatori della Commedia fossero all’oscuro di come si officiasse materialmente il rito del battesimo nel Battistero di San Giovanni al tempo di Dante, cosicché nessuno di loro riusciva ormai più a comprendere cosa fossero i “battezzatori” di Inf. XIX; cfr. Mirko Tavoni, “Effrazione battesimale tra i simoniaci” (Inf. XIX 13–21), Rivista di letteratura italiana 10 (1992): 457–512. L’importanza dei trattati d’abaco moderni per i pittori dell’Italia centrale del Quat- trocento è stata studiata da Michael Baxandall in un suo celebre libro, in cui si mostra come la scomposizione dei solidi complessi in forme più elementari, così come la “Regola del Tre,” o “Chiave del Mercante,” la quale permetteva di calcolare il quarto termine (ignoto) di una proporzione, entrambe al centro della formazione scolastica dei giovani della classe media, non soltanto mercantile, avessero plasmato lo “stile conoscitivo” della classe media del Quattrocento italiano e permettano così di illuminare retrospettivamente lo “stile pittorico” degli artisti di questo periodo: è proprio perché al futuro mercante era stato richiesto sin dai primi anni di scuola di calcolare il volume delle botti e dei barili in cui avrebbe stipato le proprie merci, sostiene Baxandall, che questi poteva comprendere e apprezzare la natura geometrica delle opere di Piero della Francesca (egli stesso, a sua volta, studente presso quelle scuole d’abaco moderne e autore più tardi di un De abaco) scomponendo così il manto della Madonna della Misericordia in un cono e un cilindro, e il padiglione della Madonna del Parto in una calotta sferica sovrapposta ad un tronco di cono, ad esempio; cfr. Michael Baxandall, Painting and Experience in 15th Century Italy (Oxford: Oxford University Press, 1972). Sarebbe ovviamente illegittimo prendere di trasporre quanto detto a proposito dello “stile conoscitivo” visivo del ’400 più maturo alla poesia di inizio ’300, ma la lettura di questi due saggi fa nascere il desiderio di un terzo, più generale, che vada a indagare come la pratica mercantile e la formazione presso le scuole d’abaco abbia informato per secoli la percezione del reale della classe media dell’Italia centrale e, quindi, le opere artistiche di questo periodo, la loro produzione e fruizione. Per un’indagine preliminare sull’emergere di una “mentalità matematica” nel ’200 europeo e sulle cause sociali di questo mutamento è da vedere la seconda parte di Alexander Murray, Ragione e società nel Medioevo. 58. Cfr. Jacopo della Lana (1324–28) ad Par. XXVIII 93. Che Jacopo della Lana ricorra ai numeri arabi è confermato anche dall’edizione più recente del suo Commento alla “Commedia,” a cura di Mirko Volpi (Roma: Salerno editrice, 2009), IV 2519. È bene però non esagerare la padronanza della nuova notazione, ché più di mezzo secolo dopo Francesco da Buti (1385–95) si mostrava ancora piuttosto impacciato, come risulta dal suo commento allo stesso verso: “del quale numero chi facesse ragione quanto è tutto insieme, troverebbe che 13 [leggi 18] milliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 446 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 1644 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 173 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 1709 migliaia di migliaia di migliaia, e 551 migliaio, 617; ecco a quanto grande numero crescerebbe lo numero delli scacchi.” La metafo- ra dantesca (“L’incendio suo seguiva ogne scintilla; / ed eran tante, che ’l numero loro / più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla”), contrariamente a quanto verrebbe da supporre in un primo momento, non dipende, non direttamente almeno, dalla cultura matematica del suo tempo, ma riprende un topos della poesia provenzale, sia francese che italiana (questo sì derivato con ogni probabilità da fonti arabe), da Folchetto di Marsiglia, Peire Vidal e Guidot de Provins, fino al Mare amoroso: “Ché io porria giurar sanza mentire / che si raddoppia e cresce il mio volere, / in voi amore e in voi ubidire, / sì com’ cresce il numer de lo scacchiere, / che tanto cresce che non trova fine” (vv. 311–15); cfr. Giuseppe Ledda, La guerra della lingua: Ineffabilità, retorica e narrativa nella Commedia di Dante (Ravenna: Longo editore, 2002), 297. 59. Da un trattato veneziano del 1540; cfr. Florence Edler, Glossary, 120–21. 70 Dante Studies 135, 2017 60. Georges Ifrah, Histoire Universelle des Chiffres (Paris: Laffont, 1994), 342. Karl Menninger, Number Words, 286. La mole di documenti analoghi sembra fugare qualsiasi dubbio sulle ragioni dello statuto fiorentino del 1299. 61. Cfr. Porena (1946–48). Questa accezione specifica pare sia completamente sfuggita ai commentatori antichi; cfr. Michele A. Lanci et alii, scrittura in ED V: 93–4. Il primo a intuirlo sembra essere stato Poletto (1894): “la sua partita, la pagina stabilita per lui.” Lo notava in tempi più recenti anche Joan M. Ferrante “the good and bad deeds of men are recorded by number in God’s books like in account books” in The political vision of the Divine Comedy (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1984), 360. Alcuni studiosi hanno auspicato un’indagine dell’opera dantesca alla luce del lessico mercantile e, più in generale, del sistema bancario che nacque proprio sul finire del ’200 in Toscana, per affermarsi quindi in tutta Europa; cfr. Susan Noakes, Dante e lo sviluppo delle istituzioni bancarie a Firenze: “I sùbiti guadagni” in Dante: Da Firenze all’Aldilà—Atti del terzo Seminario dantesco internazionale, Firenze, 9–11 giugno 2000, a cura di Michelangelo Picone (Firenze: Franco Cesati, 2001), 249–61. Le terzine studiate in questo saggio potrebbero offrire un ottimo punto di partenza per indagini di questo tipo. 62. Cfr. Robert Hollander, “Dante’s “book of the dead”: a note on Inferno XXIX, 57”, Studi danteschi 54 (1982), 38–39: “Where is ‘here’ in verse 57? We hold the answer in our hands: the text of Dante’s poem . . . In such a reading of the verse, the implicit claim made by the poet on behalf of his text was simply too much for his commentators to accept. In any number of them one can sense a new awareness of the relevance of the book’s metaphor generated by the verb registrare to Dante’s own book.” 63. Cfr. Fraticelli (1852): “Registrare è porre a registro, a libro.” C’è chi ha invece voluto scorgere un riferimento alla pratica giudiziaria, per quanto i due ambiti metaforici, il contabile e il giu- diziario, non vadano necessariamente intesi come alternativi, ché il liber mortis sarà per l’appunto chiamato in causa nel giorno del Giudizio; cfr. Alessandro Vellutello (1544) ad Inf. XXIX 57: “che qui registra, i quali in questo tal fondo condanna, E dice registra, perche data la sententia contra del reo, quella si registra, acciò che tale qual ella è, si possa poi a tempo publicare.” Cfr. Johannis de Serravalle (1416–17): “Qui registra .  .  . hic ponitur in quaterno, scilicet per auctorem.” Il Serravalle fu in effetti l’unico dei commentatori a comprendere il significato esatto da assegnare al “qui” di Inferno XXIX, per quanto la sua interpretazione non abbia trovato prima di Hollander nessun interprete pronto ad accoglierla. 64. Cfr. Daniello (1547–68): “registra; tratto dai mercatanti: uolendo dimostar che qui tutti li nomi dei peccatori sono registrati”; gli fa quindi eco Gregoretti (1856): “qui, come mette nel registro delle partite il mercante.” Confronta inoltre Bergmann (1881): “registro est un livre divisé en rubriques.” Cfr. Florence Edler, Glossary, 240. 65. Dopo essersi appellato al “volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi,” Dan- te (o, per meglio dire, l’Aquila) passa difatti immediatamente a descriverne il contenuto (vv. 115–41), dando enfasi alla propria requisitoria per mezzo dell’anafora delle aperture delle nove terzine successive le quali recitano, a gruppetti di tre, “Lì si vedrà,” “Vedrassi” e, infine, “E” seguita da verbi di significato analogo ai primi (“E a dare a intender”, “e parranno”, e . . . lì si conosceranno”), cosicché questi versi si caratterizzano poi anche, a livello semantico, per una marcata insistenza sulla capacità del liber di “rendere palese” le colpe di questi sovrani. Dante aveva fatto ricorso allo stesso artificio retorico a Purg. XII 25–63, nell’episodio dei superbi, sui quali campeggiano gli esempi di superbia punita e l’acrostico “VOM” (uomo) delle terzine che li vanno a descrivere, piuttosto vicine a quella di Paradiso XIX quanto a struttura descrittiva (“Vedea,” “O” esortativo, “Mostrava”). Nessuno dei due acrostici pare possa essere inteso come un prodotto casuale delle anafore di inizio terzina, come osserva giustamente, tra gli altri, Robert Hollander (2000–2007). Contro una recente tendenza interpretativa che pretende di ritrovare numerosi altri nuovi acrostici nei luoghi più disparati dell’opera dantesca ha argomentato a piena ragione Teodolinda Barolini, The Undivine “Comedy”: Detheologizing Dante (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1992), 308–10. La tesi che le “letter mozze” indichino proprio quelle lettere iniziali che vanno a formare l’acrostico “LVE” è evidentemente priva di qualsiasi plausibilità interpretativa. 71 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani 66. Cfr. Leo Koep, Das himmlische Buch in Antike und Christentum: Eine religionsgeschichtliche Untersuchung zur altchristlichen Bildersprache (Bonn: Peter Hanstein, 1952), in particolar modo pp. 47–54. 67. Cfr. Robert Hollander, Dante’s “book of the dead”, 42 n. 16: “I realize that my phrase is impressionistic rather than based in strictly theological language. cfr. Berthier (1892) “On our passage: “Perché, sebbene nella lingua dei teologi sia abbia di frequente il ‘liber vitae’, non si ha però il ‘liber mortis’ . . .”. Nonetheless the passage in Apoc. 20:12 undoubtedly suggests exactly a division into two books, one for the saved and one for the damned.” 68. Daniele è difatti con certezza pressoché assoluta la fonte dei libri dello pseudo-Giovanni. I libri di Daniele non sono tuttavia esplicitamente contrapposti al liber vitae, per quanto altrove nell’opera si parli di un libro (non ulteriormente qualificato) che conterrebbe i nomi di coloro che saranno salvati; cfr. Dn. 12, 1. Per l’esegesi di Agostino e Gerolamo vedi Jean Leclerq, “Aspect spirituel de la symbolique du livre au XIIe siècle” in L’Homme devant Dieu: Mélanges Offerts au Père Henri De Lubac (Paris: Aubier, 1963–64): II 64–67. Gerolamo, in particolare, commenta: “Libri . . . conscientiae et opera singulorum in utramque partem, vel bona vel mala, revelantur. Bonus liber ille est, quem saepe legimus, liber viventium” (PL 25, 532–33). 69. Cfr. Petrus Iohannis Olivi, Lectura super Apocalipsim, ed. Warren Lewis (Saint Bonaven- ture, NY: Franciscan Institute of Publications, 2015), commento ad Ap. 20, 12. 70. Gorni ha proposto un accostamento proprio tra quest’ultimo passo dell’Apocalisse (5, 1) e l’ultimo canto del Purgatorio in relazione al tema del “libro della memoria” nella Commedia; cfr. Purg. XXXIII 73–4, 79–81 (a parlare, nei primi versi, è Beatrice): “Io veggio te ne lo ’ntelletto / fatto di pietra e, impetrato, tinto . . . E io: ‘Sì come cera da suggello, / che la figura impressa non trasmuta, / segnato è or da voi lo mio cervello’ ”. Cfr. Guglielmo Gorni, “Spirito profetico duecentesco e Dante,” Letture classensi XIII (1984): 60: “È l’invenzione di un nuovo mito. Il ‘libro della memoria’ dantesco, all’occorrenza, si piega a una realtà più esoterica, diventa un libro sacro, suggellato: proprio come nell’Apocalisse, ‘librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem’ (5, 1). E la ‘pietra’ del suo intelletto si fa molle cera, come in Judith 16, 18 ‘petrae sicut cera lique- scent ante faciem tuam’: ciò è congeniale alla vocazione profetica, come ben sapeva Dante.” La stessa immagine ricorre anche in Epist. XI, 2: “qui solus eternus est, mentem Deo dignam viri prophetici per Spiritum Sanctum sua iussione impressit,” con allusione a Geremia. Sulla metafora del libro in Dante vedi, più in generale, il classico Charles S. Singleton, An Essay on the “Vita Nuova” (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1949), 22–54. Da integrare perlomeno con John Ahern, “Binding the Book: Hermeneutic and Manuscript Production in Paradiso 33,” Publi- cations of the Modern Language Association of America 97 (1982): 800–809. Sull’importanza del “libro della memoria” nella cultura medievale, rimane imprescindibile Mary Carruthers, The Book of Memory: A Study of Memory in Medieval Culture (Cambridge: Cambridge University Press, 1990). 71. De veritate, q. 7 a. 8 ad 2 (53101). È lo stesso Tommaso a parlare di una damnatio memo- riae che colpisce i sovrani che hanno governato ingiustamente; cfr. De regimine principum, I, 10. Perché Hollander se ne rendesse conto sarebbe infatti bastato andare a leggere i passi indicati da Berthier nel proprio commento (che Hollander, come si è visto, cita) per sostenere che “sebbene nella lingua dei teologi sia abbia di frequente il ‘liber vitae’, non si ha però il ‘liber mortis’.” Se era stata l’erudizione teologica a permettere a padre Berthier di scovare il passo della Summa e del De Veritate, questi era poi caduto preda del demone dell’ortodossia, perché seppure il liber mortis non aveva corso “nella lingua dei teologi”—o, perlomeno, non in quella di Tommaso— pretendere di far coincidere la religiosità dantesca (in senso lato) con la dogmatica tomista è un errore imperdonabile. 72. Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 7 a. 8 s. c. (53098): “Sed liber mortis non invenitur in Scriptura dici sicut liber vitae. Ergo non debemus ponere librum mortis”. Se la Bibbia non pare accennare in nessun luogo ad un liber mortis si riferisce tuttavia in molteplici occasioni ai nomi dei dannati che saranno depennati dal libro di Dio, variamente qualificato come liber viventium, liber monumenti (da intendere come “libro di memorie”) o semplicemente come libro divino (“liber tuus”); cfr. Es. 32, 32–33 (dialogo tra Dio e Mosè dopo l’episodio del vitello d’oro): “ ‘Aut si non facis dele me de libro tuo quem scripsisti.’ Cui respondit Dominus: ‘Qui peccaverit mihi delebo 72 Dante Studies 135, 2017 eum de libro meo’:” Ml. 3, 16: “Scriptus est liber monumenti coram eo timentibus Dominus et cogitantibus nomen eius;” Sal. 69 (68), 29: “Deleantur de libro viventium et cum iustis non scribantur;” Is. 4, 3: “Sanctus vocabitur omnis qui scriptus est in vita in Hierusalem;” Fil. 4, 3: “adiuva illas . . . quorum nomina sunt in libro vitae.” 73. Si veda l’intera quaestio 24 della prima parte del trattato. 74. Johannis de Serravalle (1416–17). Il passo riportato in corpo di testo è tratto da Benvenuto da Imola (1375–80): “quel volume aperto, scilicet librum Dei in quo descripta sunt omnia delicta hominum; unde dicit: nel qual si scrivon tutti suoi dispregi, idest, in quo volumine magno scribuntur omnes transgressiones hominum qui spernunt mandata Dei”; cfr. L’Ottimo Commento (1333): “quel volume aperto, cioè in quella ultima sentenza dove sono scritti tutti li processi.” Jacopo della Lana pare avvicinarsi invece all’esegesi metaforica di Olivi; cfr. Jacopo della Lana (1324–28): “E questo saranno quando lo libro sarà aperto, cioè la giustizia condannerà li buoni e li rei, nel quale libro si saranno scritti tutti li loro difetti.” Manca di discutere il problema del “volume” Christian Trottmann, “Communion des saints et jugement dernier dans les chants XIX–XX du Paradis,” in Pour Dante. Dante et l’Apocalypse: Lectures humanistes de Dante, ed. Bruno Pinchard et Christian Trottmann (Paris: Champion, 2001), 181–98. Andrea Battistini, “L’universo che si squaderna: cosmo e simbologia del libro,” Letture classensi XXV (1986): 67, parla invece, del tutto genericamente, di un “libro della giustizia che registra il male e il bene di ognuno.” 75. Prediche del B. Fra Giordano da Rivalto recitate in Firenze dal MCCCIII al MCCCVI, a cura di Domenico Moreni (Firenze: Magheri, 1831), I 207–208. L’edizione Moreni non riporta pur- troppo un altro passo di questa stessa predica che sviluppa ulteriormente la metafora contabile: “O che grandi volumi si troveranno molti de’ fatti loro! Non è libro nullo di Compagnia sì grande o di tanto volume che quello non sia maggiore. Vedil pur in questo modo, ch’avrai pieno di un grande libro di bottega, pur di tante opere k’ae fatte di marcanzia”; Firenze, Biblioteca Riccar- diana, ms. 1268, c. 10vb, citato da Carlo Delcorno, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare (Firenze: Olschki, 1975), 60. Nel passo citato in corpo di testo ho seguito la proposta di Moreni, il quale corregge molto ragionevolmente il “compagnie” dei manoscritti in “campagne” (ibid., 207 n. 1). Il passo riportato da Delcorno suggerisce tuttavia una maggiore prudenza, anche se è probabile che Giordano, prese le mosse dalle ricevute degli amministratori di cui parlava Luca, finisse poi per assumere come termini di paragone i libri contabili delle Compagnie di Firenze, confondendo così chi stava trascrivendo la sua predica. A questo passo di Giordano da Pisa si erano già richiamati, nel loro commento a Par. XIX 112–14, Scartazzini—Vandelli (1929). Sui nessi formali tra lo stile dantesco e quello dei predicatori (con particolare attenzione a frate Giordano, preso come riferimento esemplare), cfr. Carlo Delcorno, “Cadenze e figure della predicazione nel viaggio dantesco”, Letture Classensi XV (1986): 41–60; “Dante e il linguaggio dei predicatori”; Schede su Dante e la retorica della predicazione, in Miscellanea Pasquazi I 301–12. Che alcuni tratti della lingua di Dante dipendano da quella di Giordano da Pisa era già stato sostenuto, ma con argomenti del tutto infondati, da Aldo Vallone, “Dante e fra G. da Rivalto,” Giornale italiano di filologia XIX (1966): 260–72. Poco stringente anche Adriano Bozzoli, “Due paragrafi sul prologo della Divina Commedia,” Aevum XLI (1967): 518–29. Mutuo l’espressione in corpo di testo da Jacques Chiffoleau, La comptabilité de l’au-delà: Les hommes, la mort et la religion dans la région d’Avignon à la fin du Moyen Age (vers 1320–vers 1480) (Roma: École française de Rome, 1980). Dello stesso autore e per una presentazione critica della letteratura sul tema è da vedere la bella conclusione al volume da lui curato Économie et religion: L’expérience des ordres mendicants (XIIIe–XVe siècle), a cura di Nicole Bériou—Jacques Chiffoleau (Lyon: Presses Universitaires de Lyon, 2009), 707–54. 76. Cfr. Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (Bern: Fran- cke, 1948), 306–52. Curtius si limita a ricordare Ap. 20, 12 senza tuttavia discuterlo, mentre il “volume aperto” di Paradiso XIX non è nemmeno citato. 77. Venezia, Biblioteca del Museo Correr, ms. Malvezzi 149 (VI 837), c. 104r; cfr. Carlo Delcorno, Giordano da Pisa, 60. Per uno studio sulle metafore tratte dall’economia nel lessico religioso di Giordano da Pisa vedi Cecilia Iannella, Giordano da Pisa: Etica urbana e forme della società (Pisa: ETS, 1999), 134–41. 73 Le “lettere mozze” di Federico III di Sicilia Mantovani 78. Cfr. Rime, a cura di Gianfranco Contini, 28a (LXXVIII), 93: “i grani di panìco sarebbero serviti per far di conto . . . Metter la ragione, ‘fare, regolare i conti’; più frequente, come termine commerciale, è rimetter la ragione, ‘presentare il rendiconto periodico’. Qui varrà, meglio che ‘fare il conto’ (delle persone del v. 12), ‘regolarlo, finirla, metter punto’.” Sul significato tecnico di Ragione, di Saldo, mettere (la ragione) in e di Libro della ragione vedi Florence Edler, Glossary, 160, 236–37, 255. 79. Cfr. Justin Steinberg, Accounting for Dante: Urban Readers and Writers in Late Medieval Italy (Notre Dame, IN: University of Notre Dame Press, 2007), in particolare 125–44. 80. L’espressione è di Contini; Rime, lvi. Per il giudizio di Dante sulla lirica precedente e la sua funzione narrativa all’interno del poema, vedi Teodolinda Barolini, Dante’s Poets: Textuality and Truth in the Comedy (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1984).