Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione 1 Data di pubblicazione: 15.12.2017 LA VERGOGNA DELLA CREAZIONE di Fabio Galimberti Leggendo queste pagine, l’uomo di Cro-Magnon farebbe di certo spallucce.1 Abstract L’articolo parte dalla tesi della sublimazione come destituzione della volontà di potenza della pulsione e come possibilità di affrancamento del corpo nell’esperienza estetica. Se la volontà di potenza della pulsione si esercita sul corpo del soggetto, la sublimazione la trasferisce sul corpo dell’opera attraverso un atto di deposizione, liberando così il corpo dalla sua presa. Ho ritrovato tracce di quest’atto di deposizione nella riflessione di scrittori e filosofi (Erri De Luca, Silvia Vizzardelli, Giorgio Agamben). Ho ipotizzato una sua presenza anche nell’attività artistica degli uomini primitivi, proponendo una spiegazione del collocamento insolito delle pitture all’interno delle caverne, in punti oscuri e quasi irraggiungibili, a partire dal sentimento della vergogna e come risposta al trauma della costituzione della realtà psichica. This essay starts from the thesis that sublimation is the destitution of the the will of power of the drive and the possibility of making free the body in the aesthetic experience. If the the will of power of the drive is exercised on the body of the subject, the sublimation transfers it to the body of the work through an act of deposition, so freeing the body from its grip. I found traces of this deposition’act in the reflection of writers and philosophers (Erri De Luca, Silvia Vizzardelli, Giorgio Agamben). I hypothesized his presence also in the artistic activity of primitive men, proposing an explanation of the unusual placement of the paintings inside the caves, in obscure and almost unreachable points, starting from the feeling of shame and as an answer to the trauma of the constitution of psychic reality. Scrivere un libro è provare a capire dove ci si trova, segnalare a che punto si è con una questione, «la richiesta inoltrata dal navigante circa la possibilità di conoscere la propria posizione»2, scrive il poeta Valerio Magrelli. Per restare nella metafora, nelle prossime righe dirò, in forma di brevi annotazioni, cosa è stato proseguire questa navigazione, nell’incontro con altri naviganti e nell’arrivo in altri approdi, che ho sentito in qualche modo familiari. In una pubblicazione recente la mia posizione era segnalata da una tesi sulla sublimazione come messa in opera della verità e del godimento. Era una tesi che, riprendendo quella nota di Heidegger, voleva dar conto di come la libido innervi la creatività, a livello inconscio, sia nel suo versante di desiderio, con il correlato delle fantasie che mette in gioco, sia nel suo versante pulsionale, per come è un trattamento della soddisfazione che tocca le zone erogene del corpo. Questa implicazione del corpo, non contemplata nella 1 A. Leroi-Gourhan, Le religioni della preistoria, Adelphi, Milano 1993, p. 95. 2 V. Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie, Einaudi, Torino 1996. Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione 2 Data di pubblicazione: 15.12.2017 formula heideggeriana, era quella che mi interessava di più e tuttora mi interessa. Perché vedo nella sublimazione un’occasione di sottrarre il corpo al dominio di quel parassita che è il Trieb, un momento di sospensione della sua morsa, un frangente di tregua, provvisorio, instabile, ma salutare, agognato, rinnovabile. La pulsione è la volontà di potenza che usa il corpo, lo sfrutta, lo fa agire, lo fa funzionare a vuoto, senza scopo e senza perché. La pulsione è il fondamento nichilistico del soggetto. Mentre la sublimazione è una destituzione della volontà di potenza della pulsione, è la sua diversione, deviazione, istituzione altrove, concentrazione in un fuori concreto che la addensa e se ne fa carico. Sulla scia di questa idea ho trovato una concordanza straordinaria tra lo sfruttamento pulsionale e quello che realizza la tecnica. La tecnica può essere pensata come un aiuto al corpo, come superamento dei suoi limiti. Ma proprio in questo oltrepassamento, in questo uso estensivo, avviene anche un ulteriore sfruttamento, un renderlo più operativo, più efficiente ancora, più attivo, più eccitato fino al limite dell’esaustione. La tecnica diviene attivazione senza senso e senza scopo, «soppressione di tutti i fini nell’universo dei mezzi»3, assoggettamento del corpo alla legge del puro e cieco funzionamento. Ma se noi sostituiamo a “tecnica” la parola “pulsione” riusciamo a rendere a meraviglia il concetto freudiano di Trieb. Strana concordanza, a prima vista, ma molto comprensibile ad una seconda considerazione. La tecnica è prolungamento, ampliamento della volontà di potenza della pulsione. Pensiamo a come l’occhio possa essere potenziato da tutti gli strumenti tecnologici. Microscopio, telescopio, radiografie, telecamere, risonanze magnetiche: sono tutti mezzi che vanno oltre i limiti fisiologici dell’organo, rendono così l’organo ancora più efficiente, più attivato, più prestante. Non lo lasciano in pace, ma lo spremono, lo magnificano, lo iperstimolano. La tecnica è protesi, altro corpo, non staccato da quello fisico, è altra prateria per il pascolo della pulsione, dalla quale continuiamo così ad essere divorati. A meno che non si offrano nuovi campi e nuova erba da masticare. Anzi, forse si può stabilire un rapporto diretto tra aumento della tecnica e necessità della sublimazione. Erri De Luca rende bene l’elusione del divoramento con l’immagine tratta dal Libro del profeta Amos: come il pastore strappava «dalla bocca del leone due zampe o il lobo di un orecchio», così la sua scrittura dentro la giornata feriale è stata «scippo di rimasugli dalla bocca di un lavoro che sbranava le forze», il tentativo «di consistere in qualcosa, di trattenere un resto per non» darsi «arreso all’usura del giorno»4. La sublimazione è questa sottrazione del corpo al lavorio della pulsione, tempo festivo, vacante, nel quale non tutto di sé è dato in pasto, è la possibilità di salvare la pelle offrendo altro da mangiare, buttando cibo ai piedi di Cerbero. In questo buttar giù, lasciar cadere da sé, sfrondarsi, consiste il gesto della sublimazione. Anche Silvia Vizzardelli, che ha incrociato felicemente estetica e psicoanalisi, valorizza dell’esperienza estetica proprio il lasciarsi andare, l’abbandono di sé, vedendo nel movimento di abbassamento, contrario a quello di elevazione, la possibilità di un distacco da sé che riesce solo «attraverso un gesto rovinoso, una fatale caduta, una deposizione».5 Nel realizzare un’opera si attua questa deposizione, una scorporazione dell’esigenza pulsionale, come una cessione, una colata di sé che va a precipitarsi in un prodotto, in un manufatto o in una performance, che va a condensarsi in qualcosa di materialmente esterno, va a conficcarsi residualmente nell’artefatto. L’opera è deposito libidico. L’artista, il pittore ad esempio, secondo Lacan è chi «dà qualcosa in pasto all’occhio, ma invita colui al quale il quadro è presentato, a deporre lì il proprio sguardo, come si depongono le armi»6. Lo 3 U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 40. 4 E. De Luca, Non ora, non qui, Feltrinelli, Milano 2012, p. 11. 5 S. Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi, Quodlibet Studio, Macerata 2014, p. 36. 6 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino 2003, p. 100 (corsivo Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione 3 Data di pubblicazione: 15.12.2017 sguardo è un’arma che non smette di essere attiva e operante, ma che non fa subire passivamente al corpo del soggetto la sua azione, perché viene deposta e quindi neutralizzata. È una minaccia che la sublimazione riesce a dirigere altrove, una minaccia che non viene sventata in assoluto, ma in relazione a sé, perché, provvisoriamente, per il tempo labile dell’esperienza estetica, viene spostata su qualcosa di diverso dal corpo proprio. Nel caso della pittura viene inoculata nella tela, come un virus capace di contagiarla, di trasferire lì la sua infezione. Non c’è in questa neutralizzazione un modo per intendere quanto Freud affermava con il termine equivoco di desessualizzazione? Ho trovato nella riflessione di Giorgio Agamben sull’inoperosità un punto di incontro prezioso, che dà conto di questa congiuntura di un’azione che continua ad essere esercitata, senza che a subirla sia la carne del soggetto. In un passaggio finale del suo testo, incentrato sulla potenza destituente, Agamben fa riferimento a quelli che i grammatici latini chiamavano verbi deponenti, quei verbi che non si possono dire propriamente né attivi né passivi, tra i quali, ironia della lingua, c’è anche il verbo gaudeo. Si chiede l’autore: «Che cosa ‘depongono’ i verbi medi o deponenti? Essi non esprimono un’operazione, ma la depongono, la neutralizzano e rendono inoperosa e, in questo modo, la espongono»7. Ecco come può essere riformulata l’idea di sublimazione: è una messa inopera della verità e del godimento, un rendere inoperosa la volontà inconscia. Esposizione, scrive l’autore, posizione fuori dell’Es, riscriverei, posizione fuori dell’azione attivante del desiderio e del godimento, suo collocamento ed esercizio nell’opera. Agamben rintraccia nell’inoperosità un fattore metafisico dell’antropogenesi, ciò che libera «il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato»8. In effetti, è immediato correlare la creazione estetica, come forma particolare di sublimazione, all’origine dell’uomo. E porsi la questione della nascita dell’arte in termini di nascita dell’uomo, così come ha fatto Georges Bataille, nel suo testo su Lascaux, nel quale enuncia quanto «l’opera d’arte sia intimamente legata alla formazione dell’umanità»9. Lascaux è una delle località in cui sono stati ritrovati esempi straordinari dell’arte paleolitica. Le grotte di Lascaux, in particolare, con le sue raffigurazioni parietali sono state definite la Cappella Sistina del paleolitico. Ma un altro sito così magnificente è ad Altamira, in Spagna. Pablo Picasso, dopo averlo visitato, avrebbe detto: “Dopo Altamira, tutto è decadenza”. Che l’animale uomo ad un certo punto della sua evoluzione abbia d’improvviso avvertito la necessità di creare manufatti o dipingere pareti è qualcosa che desta meraviglia. Non utensili o strumenti tecnici per cavarsela con i bisogni fisiologici (che comunque a partire dalla simbolizzazione avevano già smesso di essere semplicemente tali), ma oggetti artistici, statuette, dipinti, decorazioni. Desta meraviglia che mentre alcuni uomini del Paleolitico imbracciavano le armi per andare a caccia o si preoccupavano di cucinare le prede catturate, altri prendessero ocra e carbone per andare a tracciare sulle pareti di una caverna la sagoma di bisonti, cervi, cavalli, altri animali e altri segni. È talmente meraviglioso che inizialmente gli studiosi non hanno potuto far altro che considerare questa attività finalizzata alla sopravvivenza fisica, non hanno potuto che legarla alla preoccupazione di procurarsi il cibo. Nella loro spiegazione l’arte avrebbe avuto unafinalità utilitaristica, connessa a credenze magico-religiose, avrebbe fatto parte di un rituale praticato all’interno delle caverne e celebrato con lo scopo di ottenere il successo nella caccia e di favorire la riproduzione degli animali. Sarebbe stata magia propiziatoria. Gombrich sostiene che per «capire questi strani inizi dell’arte» dobbiamo scoprire cosa mio). 7 G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 350. 8 Ibidem, p. 351. 9 G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte, Mimesis, Milano 2007, p. 17. Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione 4 Data di pubblicazione: 15.12.2017 spinga questi uomini primitivi «a considerare le immagini non come qualcosa di bello da guardare, ma come oggetti da usare, ricchi di potenza»10. Riecco la volontà di potenza e non la sua destituzione nella creazione artistica. Hauser rinforza l’idea: «Le immagini facevano parte dell’apparato di questa magia; erano la ‘trappola’ in cui la selvaggina doveva cadere, o piuttosto la trappola con l’animale già catturato: perché l’immagine era insieme rappresentazione e cosa rappresentata, desiderio e appagamento. Nell’immagine da lui dipinta il cacciatore paleolitico credeva di possedere la cosa stessa, credeva, riproducendolo, di acquistare un potere sull’oggetto»11. Ancora il potere. Ma con un’immagine suggestiva, quella della trappola con l’animale già catturato. Quale animale? Possiamo rispondere proprio a partire dalle parole di Hauser, andando oltre la sua tesi esplicita. L’animale è libidico, è insieme “desiderio e appagamento”. L’immagine dipinta è una trappola per la pulsione, una “trappola per lo sguardo” afferma Lacan. Che la pittura non avesse questa finalità utilitaristica è dimostrato dalla prevalente non corrispondenza tra il bestiario raffigurato e la fauna consumata. Renne e stambecchi erano la selvaggina cacciata prevalentemente, lo si è dedotto dai resti di cucina e dei pasti ritrovati, dunque avrebbero dovuto essere i più rappresentati sulle pareti delle caverne, mentre i soggetti principali sono cavalli e bisonti, che secondo la ricostruzione di André Leroi-Gourhan, che ha rivoluzionato il modo di intendere l’arte primitiva, rappresentavano il simbolo del maschile e del femminile. Il dualismo sessuale al quale rimandano è confermato anche dalla frequente raffigurazione associata di vulve e falli, con prevalenza dei genitali femminili. Anche in questo caso più selvagina, che selvaggina. Probabilmente Hauser non disponeva di questi dati dietetici. La sua posizione è perentoria e nel ribadirla apre una questione che è della massima importanza: «Ogni altra spiegazione dell’arte paleolitica – ad esempio la sua interpretazione come forma decorativa o espressiva – è insostenibile. Vi si oppone tutta una serie di indizi, e principalmente la posizione dei dipinti nelle caverne, spesso in angoli completamente nascosti, difficilmente accessibili, affatto oscuri, dove non avrebbero mai potuto servire come ‘decorazione’. Tale disposizione indica appunto che i dipinti non furono eseguiti per la gioia degli occhi, ma perseguivano uno scopo per cui importava ch’essi fossero collocati in certe caverne e in certe parti determinate di esse – evidentemente in luoghi particolarmente adatti all’incantesimo. Non è possibile parlare di intento decorativo o di esigenza estetica di espressione e comunicazione, qui dove le pitture venivano piuttosto celate che esposte».12 La questione che Hauser, come altri, apre è quella della stranezza del loro collocamento. È probabile che l’arte parietale primitiva non sia stata praticata soltanto all’interno delle caverne e che, se rimane ai nostri giorni la testimonianza maggiore della creatività degli uomini del Paleolitico, insieme all’arte mobiliare, ciò sia dovuto proprio alle particolari condizioni climatiche e geologiche presenti in quelle cavità, che si sono conservate stabili, in termini di temperatura e umidità, per l’ostruzione delle imboccature prodotte nel tempo dal deposito di detriti. Tanto è vero che il loro stato di conservazione è degenerato con l’invasione dei turisti che ha alterato l’equilibrio atmosferico. Ma quello che Hauser fa notare è il loro posizionamento estremamente riparato, in zone non solo buie, ma impervie, faticosamente raggiungibili, anguste. È un’annotazione cruciale, che pone un interrogativo al quale risponde troppo rapidamente, deducendo che non avessero finalità estetiche, altrimenti sarebbero state in vista, e stabilendo così un’equivalenza tra espressione e comunicazione che non va da sé. Non è la stessa cosa creare e pubblicare. Si può compiere un atto sublimativo senza darne conto ad altri, anzi evitando accuratamente la pubblicità. Quanti scrittori tengono nel cassetto il proprio romanzo? Quante soffitte 10 E. H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, Einaudi, Torino 1979, p. 27. 11 A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 2001, p. 8. 12 A. Hauser, Storia…, cit., p.10. Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione 5 Data di pubblicazione: 15.12.2017 ospitano i quaderni di poesie dell’adolescenza? Quanti pittori non si separano dai propri quadri? O, per prendere un esempio più quotidiano, quanti cantano disinvoltamente e a squarciagola sotto la doccia, ma sarebbero spaventati dal canticchiare una canzone in mezzo ad altre persone? Quanti si mettono a ballare in casa davanti allo specchio in modo scemo e scatenato, ma in una discoteca rimangono rigidi come un manico di scopa? Espressione e comunicazione sono due fenomeni dell’esperienza estetica che possono essere disgiunti e il cuneo che li può separare è il sentimento della vergogna. L’uomo è «la bestia dalle guance rosse»13, scriveva Nietzsche. Ed è una verità che una psicoanalisi forse più incentrata sul problema etico del senso di colpa ha trascurato. Di che cosa ci vergogniamo? Dei nostri fantasmi, delle bizzarrie che popolano la nostra mente, che animano i nostri desideri più nascosti, delle idee più private, che teniamo al riparo anche dalla nostra coscienza, di quelle che non riveliamo nemmeno a noi stessi. Ci vergogniamo della nostra innere Besudelung scriveva sempre Nietzsche, della nostra macchia interiore. Come non vedere in questa macchia il vero pigmento, la materia prima della pittura? Come non cogliere che era del suo stesso colore che facevano uso gli uomini del Paleolitico per dipingere le pareti delle loro grotte? Che era la loro anima polverizzata, insieme al tuorlo d’uovo e ai minerali sminuzzati, ciò che spalmavano in modo denso sulle viscere della terra? Lo facevano in modo schivo, schermandosi, con discrezione. È questo per me uno dei modi per rispondere alla questione del collocamento delle raffigurazioni all’interno delle caverne, nei punti meno praticabili, più scomodi e appartati. Come fossero le cripte, i sancta sanctorum della loro soggettività, i pozzi della mente. Era per pudore, per un profondo sentimento di ritegno che sceglievano di sottrarre alla vista e di consegnare al buio delle grotte quanto avevano di più intimo. Era una scelta di deflessione, di sottrazione alla luce, di avvolgimento protettivo nella pelle dell’oscurità. Era un modo allora come adesso per sottrarsi alla violenza della richiesta libidica, per farsi discreti e «rinunciare per un momento a qualsiasi volontà di potenza»14, come scrive Pierre Zaoui, in un libro che rinviene nell’arte di scomparire una forma di resistenza politica nell’attualità, che a mio parere anche la sublimazione può portare avanti facendo metaforicamente camminare il soggetto rasente i muri. Il secondo modo per rispondere alla questione del loro strano collocamento è attinente al primo e riprende quella sottrazione alla volontà di potenza della pulsione, che Freud esprimeva parlando della sua «forza d’urto»15. È ovviamente una speculazione, ma quello con cui deve essersi confrontato l’uomo primitivo è stato lo shock della costituzione della realtà psichica, il costituirsi della soggettività, della realtà mentale, l’effrazione dell’organismo da parte del trauma della lingua, la sua penetrazione e fissazione in forma di traccia indelebile. Ad esempio la traccia significante della differenza sessuale e delle immagini identificatorie, effetto dell’alienazione simbolica e immaginaria. Intendo così quella folla di animali e di simboli deposta sulle pareti delle grotte, come quello che l’uomo era al fondo della sua identificazione inconscia e quello che cercava di mettere fuori di sé, per desoggettivarsi nel fare sublimativo, per liberare il corpo dalla prigione dell’anima. Qual è il modo che lo stesso Freud indica come tentativo di risposta al trauma? È la sua riproduzione in forma di gioco, come quello celeberrimo del nipotino Ernst, che lanciando 13 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1991, p. 104. 14 P. Zaoui, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, il Saggiatore, Milano 2015, p. 12. L’autore fa del contravveleno del depotenziamento una forma di dissidenza, “la scommessa politica e attuale della discrezione: imparare a uscire dall’ordine della mostrazione di sé e della sorveglianza generalizzata”, ibidem, p. 15. 15 S. Freud, Pulsioni e loro destini, in Opere, Bollati-Boringhieri, Torino 1990, vol. 7, p. 15. Andrebbe fatto un più esteso lavoro di connessione tra il concetto di urto del Trieb freudiano, lo shock di W. Benjamin (L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica) e lo Stoss di M. Heidegger (L’origine dell’opera d’arte). Vedi su questo l’interessante Introduzione di C. Pasi, La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Bollati- Boringhieri, Torino 1998. Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione 6 Data di pubblicazione: 15.12.2017 fuori della culla un rocchetto tenuto per un filo pronunciava il suo espressivo “o-o-o”, che per la madre stessa significava fort (“via”), per poi recuperarlo con un allegro da (“qui”). Freud vede in questo gioco un modo del nipotino per fronteggiare e padroneggiare l’assenza traumatica della madre inscenando la scomparsa e la riapparizione di un oggetto alla sua portata. Ma quello che Freud nota ancora è qualcosa di inaspettato, ossia «che il primo atto, l’andarsene, era inscenato come un giuoco a sé stante, e anzi si verificava incomparabilmente più spesso che non la rappresentazione completa, con il suo piacevole finale»16. Non possiamo vedere in questo solo mettere fuori, in questa interruzione dell’atto completo, in questa rottura del circuito pulsionale nel gioco a sé stante, l’essenza del gesto sublimativo? Non possiamo vedere nella scelta del solo fort, del “via”, dell’atto dell’andarsene, la scelta del distacco da sé che si realizza nell’esperienza estetica? Infine, un’ultima annotazione. La caverna, da Platone in poi, ha un nobile passato filosofico. Qui credo che sia stata voluta non solo come supporto alla rappresentazione, come tela, come superficie pittorica, ma come rappresentazione stessa della soggettività con la quale l’uomo era confrontato traumaticamente. È metafora concreta del contenitore mentale e della contenzione del corpo. I suoi anfratti, le sue zone oscure, i suoi percorsi contorti, con le clandestine iscrizioni significanti sono rappresentazione di quella dimensione altra costituita dalla realtà psichica. La andere Schauplatz, come scriveva Freud, dalla quale nella sublimazione tentiamo di affrancare il corpo, deponendola fuori. 16 S. Freud, Al di là del principio di piacere, pp. 201-202 (corsivo mio). Vedi anche come è ripreso il concetto di coazione a ripetere in Ch. Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012 e in V. Cuomo, Al di là del recinto della sublimazione, Kaiak. A Philosophical Journey, 4 (2017): Sublimazione.